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mercredi, 01 juillet 2009

Cosa accadde davvero allo Scia' dell'Iran

COSA ACCADDE DAVVERO ALLO SCIA’ DELL’IRAN

http://www.sapere.it/tc/img/Storia/Rivol_Iran/pahlfarah2.jpg

Mi chiamo Ernst Schroeder, e siccome ho amici iraniani dai tempi della scuola e ogni tanto guardo la vostra rivista on line, ho pensato di inviarvi queste tre pagine prese da un libro che ho letto qualche mese fa, intitolato: Un secolo di guerra: la politica petrolifera anglo-americana e il Nuovo Ordine Mondiale. scritto dallo storico tedesco William Engdahl.
E’ un libro che tratta dell’intreccio tra la politica e il petrolio degli ultimi 100 anni.
Vi mando il brano perché lo pubblichiate sul vostro sito, dato che penso possa essere importante per tutte le persone di discendenza persiana.


DI WILLIAM ENGDAHL

“Nel novembre del 1978, il Presidente Carter nominò George Ball del Bilderberg Group,  un altro membro della Commissione Trilaterale , a capo di una speciale unità operativa iraniana della Casa Bianca sotto Brzezinski, Consigliere per la Sicurezza Nazionale.

Ball caldeggiò l’abbandono di Washington del sostegno allo Scià iraniano a favore dell’appoggio all’opposizione fondamentalista islamica dell’Ayatollah Khomeini. Robert Bowie della CIA fu uno dei principali “funzionari incaricati” nel nuovo colpo guidato dalla CIA contro l’uomo che 25 anni prima proprio le loro trame nascoste avevano messo al potere.


Il loro piano si basava su un dettagliato studio del fenomeno del fondamentalismo islamico, così come era stato presentato dall’esperto inglese dell’Islam Dott. Bernard Lewis, allora assegnatario di un incarico all’Università di Princeton, negli Stati Uniti. Il progetto di Lewis, reso noto durante l’incontro del Bilderberg Group nel maggio del 1979 in Austria, appoggiava il movimento radicale Fratellanza Mussulmana alle spalle di Khomeini, con l’intento di promuovere la balcanizzazione dell’intero Vicino Oriente mussulmano lungo linee tribali e religiose. Lewis sosteneva che l’Occidente dovesse incoraggiare gruppi indipendenti come i Curdi, gli Armeni, i Maroniti libanesi, i Copti etiopi, i Turchi dell’Azerbaijan, eccetera eccetera. Il disordine sarebbe sfociato in quello che egli definiva un “Arco di Crisi”, che si sarebbe diffuso nelle regioni mussulmane dell’Unione Sovietica.

Il colpo contro lo Scià, come quello del 1953 contro Mossadegh, fu pilotato dai servizi segreti inglesi e americani, con il pomposo Brzezinski che si prese il merito pubblico per la liberazione dallo Scià “corrotto”, mentre gli inglesi, tipicamente, rimasero al sicuro in posizione defilata.

Durante il 1978 erano in corso negoziati tra il governo dello Scià e la società British Petroleum per il rinnovo dell’accordo stipulato 25 anni prima sull’estrazione del petrolio. Nell’ottobre dello stesso anno le trattative furono mandate a monte per un’ “offerta” degli inglesi, che chiedevano diritti esclusivi sulle future esportazioni del petrolio iraniano rifiutandosi di garantirne l’acquisto. La dipendenza dell‘esportazione controllata dagli inglesi pareva giunta al termine, e l’Iran sembrava vicino all’indipendenza nella sua politica di vendita del petrolio per la prima volta dal 1953, con impazienti potenziali compratori in Germania, Francia, Giappone e altri paesi. In un editoriale di quel settembre, la testata iraniana Kayhan international scrisse:

Guardando al passato, la società venticinquennale con il consorzio [British Petroleum], e il rapporto cinquantennale con la British Petroleum che l’ ha preceduta, non sono stati soddisfacenti per l’Iran…D’ora in avanti, la NIOC [National Iranian Oil Company, Compagnia Petrolifera Nazionale Iraniana] dovrebbe fare in modo di gestire tutte le operazioni per conto proprio. (1)

Londra stava ricattando il governo dello Scià, e lo sottoponeva ad enormi pressioni economiche rifiutandosi di acquistare tutta la produzione petrolifera iraniana, comprando cioè soltanto circa 3 milioni di barili al giorno invece degli almeno cinque milioni di barili pattuiti. La cosa inflisse all’Iran drastiche ripercussioni sugli introiti, che favorirono un contesto in cui il malcontento religioso contro lo Scià poté essere ravvivato da agitatori appositamente addestrati, schierati dai servizi segreti inglesi e statunitensi. Inoltre, in questo frangente critico, ci furono scioperi tra i lavoratori del petrolio che ne paralizzarono la produzione.

Mentre i problemi economici interni dell’Iran crescevano, i consiglieri americani per la “sicurezza” della Savak, la polizia segreta dello Scià, attuarono in modo calcolato una politica di repressione ancora più brutale, per aumentare al massimo l’antipatia popolare verso lo Scià. Nello stesso momento il governo Carter cominciò cinicamente a protestare contro gli abusi dei “diritti umani” sotto lo Scià.

La British Petroleum, stando a quello che si dice, cominciò ad organizzare fughe di capitali fuori dall’Iran, per mezzo della sua considerevole influenza sul mondo finanziario e bancario iraniano. Le trasmissioni in lingua persiana della BBC, con dozzine di corrispondenti madrelingua inviati fin nel più piccolo villaggio, sollecitarono l’isteria collettiva contro lo Scià. Durante questo periodo La BBC diede all’Ayatollah Khomeini pieno appoggio propagandistico all’interno del paese. Questa organizzazione di emittenti radiotelevisive, di proprietà del governo inglese, si rifiutò di dare al governo dello Scià la stessa possibilità per poter ribattere. Ripetuti appelli personali dello Scià alla BBC non diedero alcun risultato. I servizi segreti anglo-americani si impegnarono in modo esplicito per rovesciare il suo governo. Lo Scià fuggì in Gennaio, e già dal febbraio del ’79 Khomeini era volato a Teheran per proclamare l’instaurazione del suo regime teocratico e repressivo in sostituzione del governo precedente.

Riflettendo sulla sua caduta qualche mese dopo, poco prima della sua morte, lo Scià in esilio osservò:

Allora non lo sapevo –o forse non volevo saperlo- ma ora mi è chiaro che gli Americani volevano estromettermi. E’ chiaramente questo ciò che i sostenitori dei diritti umani del Dipartimento di Stato volevano…che idea dovevo farmi sulla decisione improvvisa del Governo di chiamare l’ex sotto segretario di Stato George Ball alla Casa Bianca come consigliere sull’Iran?... Ball era tra quegli americani che volevano abbandonare me e, alla fine, il mio paese.

Con la caduta dello Scià e l’ascesa al potere dei seguaci fanatici di Khomeini in Iran si scatenò il caos. Al maggio del 1979, il nuovo governo Khomeini aveva stabilito i piani di sviluppo per l’energia nucleare del paese, e annunciato la cancellazione dell’intero programma per la costruzione del reattore nucleare francese e tedesco.

Le esportazioni di petrolio dell’Iran, circa 3 milioni di barili giornalieri, furono repentinamente bloccate. Stranamente, anche la produzione dell’Arabia Saudita in quei giorni critici del gennaio 1979 fu ridotta a circa 2 milioni di barili al giorno. In aggiunta alle pressioni sull’approvvigionamento mondiale, la British Petroleum proclamò lo stato di necessità e cancellò i contratti principali di fornitura del petrolio. Di conseguenza, all’inizio del 1979, i prezzi nel mercato di Rotterdam salirono alle stelle, fortemente influenzati dalla British Petroleum e dalla Royal Dutch Shell, le maggiori compagnie commercianti in petrolio. Il secondo “shock” petrolifero degli anni ’70 era in pieno svolgimento.

Gli indizi dicono che gli effettivi ideatori del colpo di stato di Khomeini, a Londra e tra i ranghi più alti delle organizzazioni liberali statunitensi, decisero di tenere il Presidente Carter del tutto all’oscuro di questa politica e dei suoi scopi ultimi. La crisi energetica che in seguito colpì gli Stati Uniti fu uno dei principali fattori che determinò la sconfitta di Carter un anno dopo.

Non ci fu mai una reale diminuzione nell’approvvigionamento mondiale di petrolio. Le effettive capacità produttive dell’Arabia Saudita e del Kuwait avrebbero potuto fronteggiare in qualunque momento la temporanea caduta di produzione di 5-6 milioni di barili giornalieri, come confermò mesi dopo un’inchiesta congressuale statunitense condotta dal General Accounting Office (Ufficio della Contabilità Generale).

Le scorte petrolifere insolitamente basse delle multinazionali petrolifere costituenti le Sette Sorelle contribuirono a generare un’enorme crisi del prezzo del petrolio, con un costo per il greggio che crebbe sul mercato da circa 14 dollari al barile del 1978 alla cifra astronomica di 40 dollari al barile per alcune qualità di greggio.
Lunghe code ai distributori di benzina in tutti gli Stati Uniti contribuirono a creare un generale senso di panico, e il segretario all’energia ed ex direttore della CIA, James R. Schlesinger, non aiutò a calmare le acque quando disse al Congresso e ai media nel febbraio del 1979 che la caduta della produzione del petrolio iraniano era “probabilmente più grave” dell’imbargo petrolifero arabo del 1973. (2)

La politica estera della Commissione Trilaterale del governo Carter fece in modo inoltre che fosse gettato al vento ogni sforzo europeo della Germania e della Francia per sviluppare accordi commerciali e relazioni economiche e diplomatiche con il loro vicino sovietico, sotto la protezione della distensione e dei vari accordi economici sovietico-europei sull’energia.

Il Consigliere per la Sicurezza di Carter, Zbigniew Brzezinski, e il Segretario di Stato, Cyrus Vance, perfezionarono la loro politica dell’ “Arco di Crisi”, diffondendo i disordini della rivoluzione iraniana lungo tutto il perimetro intorno all’Unione Sovietica. Per tutto il perimetro islamico dal Pakistan all’Iran, le iniziative statunitensi provocarono instabilità o qualcosa di peggio”.

Zbigniew Brzezinski, autore della teoria della “Cintura Verde” sotto la presidenza Carter, intendeva abbattere l’URSS circondandola con stati islamici alleati degli Stati Uniti



William Engdahl, Un secolo di guerra: la politica petrolifera anglo-americana e il nuovo ordine mondiale, © 1992, 2004, Pluto Press Ltd, pagine 171-174
William Eghdal

Note:

1) Nel 1978, il quotidiano iraniano Ettelaat pubblicò un articolo in cui si accusava Khomeini di essere un agente segreto britannico. I religiosi organizzarono violente dimostrazioni in risposta, che portarono alla fuga dello Scià qualche mese più tardi. Vedere U.S. Library of Congress Country Studies, Iran. The Coming of the Revolution, December 1987. Il ruolo delle trasmissioni in lingua persiana della BBC nella cacciata dello Scià è spiegato nei dettagli in Hossein Shahidi, “BBC Persian Service 60 years on”, in The Iranian, September 24, 2001.

2) Comptroller General of the United States. 'Iranian Oil Cutoff: Reduced Petroleum Supplies and Inadequate U.S. Government Response.' Report to Congress by General Accounting Office. 1979.

(
http://www.comedonchisciotte.net/modules.php?name=News&file=article&sid=108)

vendredi, 26 juin 2009

L'intreccio statunitense-saudita-wahhabita

BushAbdullah2.jpg

L’INTRECCIO STATUNITENSE-SAUDITA-WAHHABITA

di K. Gajendra Singh* - http://www.eurasia-rivista.org/


La storia è dominata da un inesorabile determinismo
in cui la libera scelta delle grandi figure storiche gioca un ruolo infimo

Lev Tolstoj

A quel che si dice, quando nel mese di novembre il potente vicepresidente statunitense Dick Cheney si scomodò per un viaggio insolitamente lungo che lo portò a Riyad, lo fece per creare contro Iran, Siria ed Hezbollah libanese una nuova alleanza sunnita nella regione, capitanata dagli USA e composta dai sei Stati del Consiglio per la Cooperazione del Golfo, dai governi arabi filoamericani del Cairo e di Amman e da volenterosi alleati della NATO - il tutto col discreto sostegno di Israele. Il 12 dicembre il "New York Times" citava fonti diplomatiche statunitensi ed arabe per rivelare quanto assicurato a Cheney, e cioè che, nel caso d'un ritiro delle truppe statunitensi, Riyad sosterrebbe finanziariamente gl'Iracheni sunniti in qualsiasi guerra contro gl'Iracheni sciiti. Il re saudita Abdullah espresse inoltre una ferma opposizione a qualsiasi negoziato diplomatico tra Stati Uniti e Iran, e chiese a Washington d'incoraggiare la ripresa dei colloqui di pace tra Israele ed i Palestinesi.

La posizione saudita riflette la paura degli alleati arabo-sunniti degli USA di fronte alla crescente influenza esercitata in Iraq ed in Libano da Tehran, dove i suoi sodali di Hezbollah hanno avuto la meglio sulle forze di terra israeliane; il tutto con sullo sfondo le ambizioni nucleari dell'Iran. Il re Abdullah II di Giordania era stato tra i primi a mettere in guardia dall'ascesa dell'influenza sciita, e soprattutto dalla mezzaluna sciita che dall'Iran giunge in Libano via Iraq e Siria. Riyad ammonì inoltre che un governo iracheno egemonizzato dalla Shi‘a avrebbe utilizzato le sue truppe contro la popolazione sunnita; infatti, l'Arabia Saudita sostiene l'instaurazione d'un governo d'unità nazionale a Baghdad. Il "New York Times" riportava inoltre queste parole, rivolte dal sovrano saudita a Cheney: «Se vi doveste ritirare e cominciasse una pulizia etnica contro i sunniti, ci sentiremmo trascinati in guerra».

Sia i funzionari sauditi sia la Casa Bianca hanno sconfessato questo resoconto. «Questa non è la politica del governo saudita», ha dichiarato ai cronisti l'addetto stampa della Casa Bianca, Tony Snow; «i Sauditi hanno chiarito di condividere i nostri stessi obiettivi, cioè la nascita d'un Iraq autosufficiente che possa sostenersi, governarsi e difendersi da solo, che riconoscerà e proteggerà i diritti d'ognuno a prescindere dalla sua setta o religione. E, oltretutto, condividono anche le nostre preoccupazioni per il ruolo che gl’Iraniani stanno giocando nella regione».
Invece Kenneth Pollack, di Brookings Institution, ha sostenuto alla CNN che l'Arabia Saudita è fortemente motivata a prendere parte ad una eventuale guerra civile: «I Sauditi temono terribilmente che una guerra civile potrebbe allargarsi anche al loro paese. Ma sono inoltre terrorizzati dalla prospettiva che gl'Iraniani, spalleggiando le varie milizie sciite in Iraq, ne possano trarre grande vantaggio».

Un ruolo saudita più muscolare per contrastare l'Iran?

Scrivendo sul "Washington Post" il 29 novembre, poco dopo il viaggio di Cheney, Nawaf Obaid, alto consigliere alla sicurezza nazionale dell'ambasciatore saudita negli USA, principe Turki al-Faisal, citava una lettera del febbraio 2003 indirizzata dal ministro degli esteri saudita, principe Saud al-Faisal, al presidente George Bush, per metterlo in guardia dal «risolvere un problema creandone altri cinque», con la deposizione forzata di Saddam Hussein; nell'articolo si faceva inoltre riferimento ad una recente dichiarazione dell'ambasciatore al-Faisal, secondo cui «dal momento che gli Americani sono andati in Iraq senza invito, ora non dovrebbero neppure lasciarlo senza essere stati invitati a farlo». Obaid argomentava che una tale visione delle cose si basa sulle richieste giunte alla dirigenza saudita da parte d'importanti figure tribali e religiose irachene, ma anche dai governanti d'Egitto, Giordania e d'altri paesi arabi e musulmani (sunniti), affinché il Regno fornisca armi e sostegno finanziario agl'Iracheni sunniti ed assuma un ruolo più muscolare nella regione: «Essendo il motore economico del Vicino Oriente, il luogo di nascita dell'Islam e la paladina de facto della comunità sunnita mondiale (che comprende l'85% di tutti i musulmani), l'Arabia Saudita ha sia i mezzi sia la responsabilità religiosa per intervenire». Tra le opzioni prese in considerazione c'è l'istituzione di nuove brigate sunnite e la fornitura ai comandanti militari sunniti (in primo luogo ex baathisti membri del disciolto corpo ufficiali iracheno, la spina dorsale dell'insorgenza) di denaro, armi e appoggio logistico - cioè quello che l'Iran sta dando ai gruppi armati sciiti già da anni. L'Arabia Saudita potrebbe strozzare i finanziamenti iraniani alle milizie incrementando la produzione petrolifera e dimezzando il prezzo del greggio, cosa che avrebbe effetti devastanti sull'Iran e sulla sua capacità di finanziare le milizie sciite in Iraq e altrove. (Nel 1990 il Kuwait, inondando di petrolio il mercato - su richiesta dell'Occidente - e così soffocando le entrate irachene, spinse Saddam Hussein ad invaderlo. Il Kuwait e l'Arabia Saudita pagarono un duro scotto, sul piano finanziario, politico e non solo. Questa volta, con gli USA impantanati in Iraq, il giochetto potrebbe risultare fatale. L'opinione pubblica statunitense non ha digerito la guerra irachena, e numerosi generali hanno affermato che la US Army è quasi disfatta). «Rimanere ai margini sarebbe inaccettabile per l'Arabia Saudita», proseguiva Obaid; «chiudere un occhio sul massacro degl'Iracheni sunniti significherebbe abbandonare i princìpi su cui nacque il Regno, minerebbe la credibilità dell'Arabia Saudita nel mondo sunnita e costituirebbe una capitolazione di fronte al militarismo iraniano nella regione. Senza dubbio il coinvolgimento saudita in Iraq comporta grandi rischi: può scatenare una guerra regionale. Così sia. Le conseguenze dell'inazione sarebbero ben peggiori». Secondo la migliore tradizione saudita, il Regno ha sconfessato le dichiarazioni di Obaid sul "Washington Post" e l'ha esonerato. In breve volgere di tempo anche l'ambasciatore Turki al-Faisal, ex capo della sicurezza nel suo paese, è rimpatriato dopo appena quindici mesi di permanenza, quando il suo predecessore aveva invece servito per vent'anni. L'Ambasciatore non era presente a Riyad durante la visita di Cheney. Mantenere il basso profilo e negare l'evidenza rientra nella comune strategia saudita. Gli esponenti degli oltre 7.000 prìncipi che regnano sull'Arabia Saudita per anzianità e consenso potranno pur avere qualche divergenza politica, specialmente tra la vecchia guardia conservatrice ed attempata ed i prìncipi più giovani, ma la dinastia è attualmente nei pasticci e sta affrontando la più grande sfida di sempre nella sua storia.

Altre mosse

In generale, dopo l'11 settembre e le tirate anti-saudite negli USA, il Regno s'è guardato attorno in cerca d'altri approdi. Le relazioni saudite con Pechino, cominciate nel 1989 con l'acquisto dei missili CSS-2, si sono sviluppate gradualmente grazie all'identificazione della Cina quale futuro grande mercato per il petrolio saudita. Anche i rapporti con Mosca sono migliorati. Re Abdullah ha inoltre visitato Nuova Delhi, cosa mai successa prima. Sia Tehran sia Riyad hanno cercato di migliorare i rapporti, ma le ricadute del pantano iracheno provocato dall'invasione statunitense hanno complicato di molto la situazione, tanto che non si può più cavarsela alla meno peggio con i vecchi metodi della diplomazia "della pazienza" o "del libretto degli assegni".

Riconoscendo l'importanza regionale della Turchia, il sovrano saudita Abdullah ha visitato Ankara a fine novembre, prima visita in quattro decenni. La Turchia, dotata d'una costituzione laica e popolata per lo più da sunniti (mentre il 15% sono sciiti alauiti), è a sua volta profondamente preoccupata dall'ipotetica disgregazione dell'Iraq e dal crescente profilo dell'Iran, suo nemico storico. Mentre confronta le proprie idee con Giordania, Siria, Iraq, Qatar, Bahrein, Pakistan e Russia, Ankara condivide con Tehran la preoccupazione per un'indipendenza dell'Iraq settentrionale a maggioranza curda. Ankara e Washington, pur alleati nella NATO, hanno visioni piuttosto divergenti sul Vicino Oriente. All'inizio di dicembre il primo ministro turco Recep Erdogan ha espresso la propria opposizione al dispiegamento di truppe statunitensi nell'Iraq settentrionale: «Personalmente, trovo sbagliato il posizionamento di truppe nordamericane nel settentrione dell'Iraq, dal momento che non v'è alcun problema legato alla sicurezza in quella zona. Gli USA dovrebbero mantenere i loro soldati nelle aree problematiche del paese». Queste dichiarazioni sono state rilasciate ai giornalisti mentre si dirigeva a Tehran. Sia Ankara sia Tehran hanno relazioni problematiche con le loro minoranze curde. Ankara, con gran disappunto degli USA, ha ricevuto anche una delegazione di Hamas. Erdogan ha usato termini molti forti ed appassionati per condannare gli attacchi israeliani contro il Libano. Di lì a poco avrebbe portato il suo paese, per la prima volta nella storia, ad un colloquio con la Lega Araba, al Cairo.

La situazione dell'Iran ricorda la favola del cammello e dell'arabo: eccetto le zampe anteriori, è fermamente piantato nella tenda irachena, tramite i partiti sciiti SCIRI e Dawa ed anche alcune fazioni interne all'Esercito del Mahdi. Hezbollah, finanziato, addestrato e armato da Tehran, durante gli scontri terrestri dell'ultima estate nel Libano meridionale ha inflitto una sanguinosa sconfitta ai rinomati reparti d'assalto israeliani, sfatando per sempre la cosiddetta "aura d'invincibilità" che Israele si costruì sconfiggendo gli Arabi nella Guerra dei Sei Giorni (1967), e che in seguito rafforzò con la minaccia nucleare e coll'incondizionato sostegno occidentale (ed in particolare statunitense). Israele, infatti, possiede centinaia di bombe nucleari ed ha i mezzi necessari per lanciarle. Il primo ministro sionista Ehud Olmert, sebbene inavvertitamente, l'ha anche ammesso in pubblico. Anche il nuovo segretario alla difesa statunitense, Robert Gates, durante la sua audizione al Congresso ha fatto riferimento alle bombe israeliane. Anche per questo l'opposizione israeliana (e statunitense) all'arricchimento dell'uranio, persino a scopo pacifico, da parte dell'Iran è al limite del fanatismo. Stando alla propaganda di Tel Aviv, è solo questione di tempo e l'Iran svilupperà la bomba; gli USA ritengono che siano necessari tra i cinque ed i dieci anni.

Tehran sta nella bambagia. I dirigenti iraniani gongolano di fronte alla trappola irachena in cui sono caduti gli USA. Mohsen Rezai, segretario generale del potente Consiglio degli Esperti che coadiuva la guida suprema ayatollah Khamenei, s'è recentemente vantato alla televisione pubblica: «Il genere di servizio fattoci dai Nordamericani, pur con tutto il loro odio, non ha precedenti: nessuna superpotenza aveva mai fatto qualcosa di simile. Gli USA hanno distrutto tutti i nostri nemici nella regione. Hanno distrutto i Talebani. Hanno distrutto Saddam Hussein. (...) Gli Statunitensi sono così piantati in Iraq e in Afghanistan che, se anche dovessero riuscire a saltarne fuori sani e salvi, avrebbero davvero di che ringraziare Dio. Gli USA si presentano a noi più come un'opportunità che come una minaccia - non certo perché essi lo vogliano, ma perché hanno sbagliato i calcoli. Molti sono gli errori che hanno commessi».

Gli USA e l'Occidente hanno persuaso la Russia e la Cina a varare sanzioni, sia pur blande, contro l'Iran, tramite la risoluzione dell'ONU del 23 dicembre rigettata da Tehran. Ma sono state proprio le cinque potenze nucleari riconosciute, aderenti al Trattato di non proliferazione nucleare (TnPN) e dotate del diritto di veto al Consiglio di Sicurezza, che hanno ucciso il trattato: infatti, esse non si sono mai mosse verso il disarmo - il primo degli obiettivi del TnPN - ed hanno costantemente violato altri suoi articoli, in spregio delle risoluzioni adottate dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite e dell'opinione espressa dalla Corte Internazionale dell'Aja. Addirittura, hanno preso a costruire una nuova generazione di bombe per uso "convenzionale". La bomba nucleare nordcoreana prova semplicemente il disordine in cui versa la materia regolata dal TnPN, nonché l'irrilevanza di quest'ultimo. L'anziano statista nordamericano Jimmy Carter ha, con grande franchezza, denunciato le responsabilità degli USA per la situazione attuale. Ormai anche i membri del Consiglio del Golfo, o altri paesi arabi come Egitto e Algeria, vogliono seguire l'esempio dell'Iran ed imbarcarsi nel ciclo d'arricchimento dell'uranio. Le loro paure di lunga data e l’ormai pluridecennale opposizione all'atomica israeliana - sviluppata con l'aiuto franco-britannico e l'acquiescenza (se non il supporto) statunitense – si sono sempre scontrate col veto nordamericano, sia a New York sia a Vienna. I bulli dominano il mondo, in questo pianeta sempre più senza legge.
La lunga e sanguinosa guerra tra Iraq e Iran (1980-‘88) fu, in ultima analisi, un conflitto tra Sunna e Shi'a, nel corso del quale Saddam Hussein venne incoraggiato, sostenuto e finanziato da tutti i governi arabi sunniti (eccetto quello siriano) - in particolare da Arabia Saudita, Kuwait, Emirati - e dalle potenze occidentali, allo scopo di neutralizzare la grandiosa ascesa della potenza sciita e l'istanza di rinnovamento del mondo islamico rappresentata dalla rivoluzione khomeinista del 1979. Milioni di musulmani, iracheni ed iraniani, furono uccisi nel corso di quella guerra. Ma se paragonata con quel conflitto, la prossima conflagrazione intermusulmana - che potrebbe essere incoraggiata da un Occidente disperato - rappresenterebbe un vero e proprio olocausto per la regione e per l'Islam. Washington potrebbe pure riuscirci, ma il risultato sarebbe una catastrofe per il mondo intero - in primis per l'Occidente, fortemente dipendente dal punto di vista energetico.

La frattura sciita-sunnita è troppo profondamente marcata e radicata nel quotidiano in molti paesi musulmani. In numerosi Stati di tradizione sunnita gli sciiti vanno a costituire una classe subalterna; ma dopo il 1979, ispirati ed aiutati dall'Iran, hanno cominciato a guadagnare terreno in Libano e non solo. La parte occidentale dell'Arabia Saudita, molto ricca di petrolio e adiacente all'Iraq meridionale, è al pari di quest'ultimo popolata da sciiti, finora vissuti in un pesante clima di repressione. Il conflitto sciita-sunnita non può essere fermato da nessuna fatwa. Una è stata emessa lo scorso ottobre a la Mecca: ventinove chierici iracheni, appartenenti ad entrambe le confessioni, radunati durante il Ramadan per iniziativa dell'Organizzazione della Conferenza Islamica (OCI), hanno pubblicato un Documento Makkah in dieci punti. Ricorrendo alla citazione di versetti del Corano e a detti tradizionali del Profeta Mohammed, la fatwa afferma che «è proibito versare sangue musulmano». Invita inoltre a salvaguardare i luoghi santi delle due comunità, difendendo l'unità e l'integrità territoriale dell'Iraq; infine, richiede il rilascio di «tutti i detenuti innocenti».

Tuttavia, ancora la maggior parte degli esperti, inclusi quelli musulmani, ostentano pessimismo circa l'efficacia di simili proclami. Secondo Abdel Bari Atwan, direttore in capo del giornale arabo londinese "Al-Quds al-Arabi", gli appelli delle guide religiose all'interruzione degli spargimenti di sangue sono destinati a rimanere inascoltati. Lo si può verificare nei quotidiani bagni di sangue che si verificano in Iraq, nel mondo islamico, e che si sono verificati per tutta la loro storia.

Storia petrolifera del Vicino Oriente

Lo studio dell'imperialismo occidentale dalla fine del XIX secolo ad oggi mostrerà l'importanza del petrolio e delle guerre condotte per acquisire e proteggere questi pozzi di potere. L'accordo segreto Sykes-Picot (1916) tra Inghilterra e Francia spartiva i resti dell'Impero Ottomano nel Vicino Oriente: i Britannici, astutamente, s'accaparrarono i territori produttori di petrolio e giunsero persino a creare uno Stato artificiale come il Kuwait. Nel 1945, prima che una declinante Inghilterra fosse spogliata delle sue colonie, gli USA siglarono un memorandum con i Britannici: «La nostra politica petrolifera, in relazione al Regno Unito, è informata al mutuo riconoscimento della grande comunanza d'interessi, ed incentrata sul controllo, almeno per il momento, della gran parte delle risorse petrolifere disponibili al mondo». Il governo inglese notava come il Vicino Oriente fosse «un tesoro inestimabile per qualsiasi potenza interessata all'influenza ed al dominio mondiale», dacché il controllo delle riserve petrolifere globali corrispondeva a controllare l'economia mondiale. Dopo il declino del Regno Unito e della Francia, sono intervenuti gli USA in qualità di potenza neocoloniale dominante in quella ed in altre regioni.

«Un tassello fondamentale della politica degli Stati Uniti nel Vicino Oriente dev'essere l'incondizionato sostegno all'integrità territoriale ed all'indipendenza politica dell'Arabia Saudita». I suoi obiettivi erano chiariti in un documento interno del 1953: «La politica statunitense consiste nel mantenere le fonti petrolifere vicino-orientali in mano nordamericana» (cit. da: Mohammed Heikal, Cutting the lion's tail). Nel 1958, un documento segreto britannico descriveva i principali obiettivi della politica occidentale nel Vicino Oriente: «1. Assicurare all'Inghilterra ed agli altri paesi occidentali il libero accesso al petrolio prodotto negli Stati affacciati sul Golfo; 2. assicurare la continua disponibilità di tale petrolio a condizioni favorevoli e per le maggiori entrate del Kuwait; 3. sbarrare la strada alla diffusione di comunismo e pseudo-comunismo nell'area, e conseguentemente difenderla dal marchio del nazionalismo arabo».

Chomsky sostiene che le compagnie energetiche occidentali hanno prosperato grazie a «profitti eccedenti i sogni più avidi», con «il Vicino Oriente quale loro principale vacca da mungere». Si trattava di una parte della grande strategia statunitense, fondata sul controllo di quello che il Dipartimento di Stato, sessant'anni fa, descrisse come «la stupenda fonte di potere strategico» del petrolio vicino-orientale, e sull'immenso beneficio derivante da questo «tesoro materiale» senza precedenti? Gli USA hanno sostanzialmente mantenuto questo controllo - ma gli straordinari successi conseguiti sono derivati dal superamento d'innumerevoli barriere: quelle che, ovunque nel mondo, i documenti interni statunitensi definiscono «nazionalismo radicale»; ma che significa solo desiderio d'indipendenza.

Il collegamento tra USA, famiglia ibn Saud e wahhabismo

Lo Stato saudita, proclamato nel 1932 da Abdul Aziz, fu di fatto il terzo reame degli al-Saud. Il primo "Stato" saudita nacque nel 1744, ad opera del primo grande esponente della famiglia, Muhammad ibn Saud, che concluse la storica alleanza col riformatore religioso Muhammad ibn Abdul Wahhab (fondatore del "wahhabismo"). Dopo la sconfitta patita nel 1818 ad opera delle forze egiziane, il Regno risorse nel 1822 per affermarsi quale potenza dominante nell'Arabia Centrale. Delle quattordici successioni interne alla dinastia al-Saud tra il 1744 ed il 1891, appena tre avvennero pacificamente. Oggigiorno, il trasferimento del potere è più tranquillo. Abdul Aziz fu incoraggiato dagl'Inglesi ad assumere il controllo della Mecca e di Medina, poiché lo sceriffo Hussain, signore della Mecca e bisnonno di re Abdullah II del Regno hashemita di Giordania, s'era mostrato poco docile e malleabile. Ricordiamo che lo sceriffo Hussain ed i suoi figli, gli emiri Faisal e Abdullah, avevano guidato la rivolta araba descritta nella pellicola Lawrence d'Arabia, aiutando le forze britanniche del gen. Allenby a sconfiggere l'esercito ottomano nella regione: bella gratitudine da parte degl'Inglesi! Il problema è che, quando Kemal Atatürk abolì il Califfato, lo sceriffo Hussain si candidò subito ad assumerne il manto regale.

Abdul Aziz prese molte mogli, al fine di cooptare questa o quella tribù, o di ricucire quando necessario buoni rapporti; essendo però un musulmano profondamente devoto, non ebbe mai più di quattro spose contemporaneamente. Il patto tra la setta wahhabita e la casa di Saud fu sancita da numerosi matrimoni. I legami tra la famiglia saudita ed i seguaci wahhabiti non si sono sciolti ancora oggi. Il ministro saudita della religione è sempre un membro della famiglia al-Sheikh, che discende da Ibn Abdul Wahhab. L'influsso wahhabita sulle moschee è indubbio, dato che la setta dispone d'una propria polizia religiosa. Inoltre, essa ha esteso la propria portata attraverso la rete di madrasse e moschee sorte in tutto il mondo musulmano.

Il wahhabismo è estremamente rigido ed austero. Non tollera molto il dialogo ed ancor meno l'interpretazione; disapprova l'idolatria, i monumenti funebri e la venerazione di statue o immagini artistiche. I seguaci preferiscono definirsi muwahhidun, cioè "unitari". I wahhabiti proibiscono il fumo, il taglio della barba, il linguaggio volgare ed i rosari, nonché molti diritti femminili. Considerano tutti coloro che non praticano la loro forma di Islam, inclusi gli altri musulmani, alla stregua di pagani e nemici.

Il legame wahhabita-saudita era semplice quando il Regno era povero. Ho visto alcuni vecchi archivi degli anni '20 e '30, conservati al Ministero degli Affari Esteri di Nuova Delhi e risalenti all'era pre-petrolifera, quando insignificanti nababbi musulmani dell'India, da Pataudi, Loharu e Chhatari, versavano piccole somme alle principali cariche di Gedda, Mecca, Medina e Riyad. Le entrate derivanti dagli annuali pellegrinaggi del Hajj costituivano forse la maggior risorsa per i cittadini ed i governanti del Regno. Alcuni arabi provenienti dai regni del Golfo lavoravano come scaricatori di porto a Mumbai, ed erano coinvolti nel contrabbando di oro in India. Sono poi divenuti multimilionari col petrolio ed il commercio.

L'Arabia Saudita è un grande paese: occupa un'area di 2,14 milioni di chilometri quadrati. La sua popolazione s'avvicina ai 22 milioni di persone, con un tasso di crescita del 3,49% ed un'aspettativa di vita pari a 71 anni. Più del 50% della popolazione ha meno di vent'anni e l'80% vive in centri urbani, consumando quantità colossali d'energia in aria condizionata. Non è più una nazione beduina. Il 75% degli adulti sono alfabetizzati, ma l'antiquato sistema educativo ha poca pertinenza col mercato del lavoro. Quasi il 30% della forza lavoro è d'origine straniera. Con la recente crescita del prezzo del petrolio, la sua situazione finanziaria è migliorata rispetto a qualche anno fa, quando aveva il maggior indebitamento del Golfo: 171 miliardi di dollari di debito interno e 35 miliardi di credito dall'estero, pari al 107% del PIL.

L'antropologo saudita Mai Yamani nel 2000 sondò le opinioni, le speranze e le paure dei cittadini compresi tra i 15 ed i 30 anni: scoprì così che il tema dell'identità «finiva sempre più col dominare e permeare l'intero studio». Pur rimanendo ben radicata nella religione, nella cultura e nelle tradizioni nazionali, la maggior parte dei giovani aveva risentito della rapida trasformazione avvenuta intorno a loro, e metteva in questione diversi aspetti dello status quo. Si riscontrava un'identità di vedute circa «i difetti percepiti dello Stato» ed il desiderio della nuova generazione «di trovare spazio nella società saudita, per sviluppare i propri atteggiamenti e le opinioni personali senza la prepotente presenza dello Stato e degli ulema». Il quadro finale è quello d'un progresso discontinuo, con l'emergere di problemi complessi.
Gli Arabi sauditi, come molti altri, hanno risentito delle importazioni occidentali, che hanno trovato molti ardenti sostenitori della modernizzazione buttarsi a capofitto nei problemi dell'identità e dell'autenticità, generando così una dura reazione in grado di rafforzare gli elementi conservativi che dominano il Regno. «Il problema saudita consiste nel trovare un giusto bilanciamento», ha raccontato M. H. Ansari, ex ambasciatore indiano a Riyad, «e si tratta d'un problema reale, aggravato dal desiderio di proteggere i privilegi della famiglia reale e la loro versione delle tradizioni islamiche. In un sistema monarchico la sicurezza nazionale è sinonimo di saldezza del regime e, per la gran parte del secolo scorso, la continuità e la stabilità data dalla famiglia al-Saud fu vista benevolmente, in patria dall'opinione pubblica ed all'estero da vicini e amici. La monarchia saudita resistette all'attacco del nazionalismo e del radicalismo arabo ed aiutò la crociata anti-comunista in Afghanistan, Nicaragua, Etiopia, ecc.; inoltre, sfruttò la sua enorme influenza in seno all'OPEC per mantenere produzione e prezzo del greggio ad un livello accettabile per il mondo industrialmente sviluppato. Infine, costituì uno dei più grandi mercati per la produzione bellica del mondo occidentale, e principalmente degli Stati Uniti».

In Arabia Saudita il petrolio fu scoperto nel 1938 dalla Standard Oil of California, la quale ottenne da Abdul Aziz una concessione cinquantennale in cambio d'un pagamento immediato di 30.000 monete d'oro: senza dubbio uno dei più grandi affari della storia! Quando la sbalorditiva estensione dei giacimenti fu ormai evidente, intervennero anche altre compagnie, come Exxon, Texaco e Mobil, per costituire il potente consorzio Aramco.

Da quel momento venne a crearsi il curioso intreccio tra gli USA, la scandalosamente ricca classe dirigente saudita e, per proprietà transitiva, i puritani wahhabiti: in cambio della sicurezza della dinastia, le ricchezze e le fonti di reddito della penisola sono state cedute allo sfruttamento dell'Occidente, ed in primis agli USA. Tale intreccio ha superato la prova del tempo: ancora oggi Washington sta facendo l'impossibile per conservare quel regime feudale dalle pratiche tipicamente medievali. Il regime controlla la più grande "impresa familiare" al mondo, senza alcun mandato popolare o responsabilità verso la cittadinanza.
L'alleanza tra gli USA e la famiglia al-Saud fu consacrata dal presidente Franklin Roosevelt, che nel 1945 incontrò il Sovrano saudita a bordo d'una nave da guerra ed ebbe occasione di dichiarare: «Con questo riconosco che la difesa dell'Arabia Saudita è fondamentale per la difesa degli Stati Uniti». Jimmy Carter, che in tempi recenti ha assunto atteggiamenti da santo, nel 1980 s'esprimeva ancor più vigorosamente: «La nostra posizione è assolutamente chiara. Il tentativo di conquistare il controllo del Golfo Persico, da qualunque potenza estera venga compiuto, sarà considerato un attentato agl'interessi vitali degli Stati Uniti».
Washington ha onorato quest'impegno con alcuni trattati militari volti alla salvaguardia del Vicino Oriente. A parte NATO e CENTO, le basi militari statunitensi si distendono dall'Africa Orientale all'Oceano Indiano, passando per il Golfo, in difesa del petrolio vicino-orientale. Inoltre sono stati istituiti la Forza di Dispiegamento Rapido, il Comando Centrale e la V Flotta, che oggi ha base nel Bahrein. La Guerra del Golfo del 1991 portò ad una massiccia espansione della presenza militare statunitense nella regione: le truppe nordamericane hanno messo piede anche sul sacro suolo saudita, provocando grande angoscia e profondo risentimento tra i musulmani sauditi più conservatori, Osama bin Laden in testa. Le truppe statunitensi si sono mosse di là solo dopo l'invasione dell'Iraq nel 2003.

Il massiccio acquisto d'armi da parte saudita

Tra il 1990 ed il 2004 l'Arabia Saudita ha speso in armamenti l'enorme cifra di 268,6 miliardi di dollari; gli Emirati Arabi Uniti, che contano appena 2,6 milioni d'abitanti, hanno speso 38,6 miliardi. L'arsenale saudita comprende oltre 1.015 carri armati (tra cui 315 modernissimi M1A2s), più di 5.000 APC/AFV, oltre a 2.000 lanciamissili anticarro, 340 e passa velivoli da combattimento d'alta qualità (inclusi F15S/C/Ds e Tornado, senza contare i 48 Typhoons - noti anche come Eurofighter - che saranno consegnati nel 2008). Ciliegina sulla torta, i Sauditi possiedono anche 228 elicotteri, 160 velivoli da addestramento e collegamento e 51 aerei da trasporto. La marina saudita può contare su 27 grandi vascelli da combattimento, incluse fregate e corvette lanciamissili.
Il Kuwait (1,1 milioni d'abitanti) ha speso 73,1 miliardi di dollari, ma, come scrive il dr. Abbas Bakhtiar (consulente ed ex professore associato all'Università del Nord, in Norvegia), «quando il 2 agosto 1990 gl'Iracheni passarono il confine, i generali kuwaitiani usarono i loro telefonini per radunare tutti gli alti ufficiali militari in un convoglio diretto verso l'Arabia Saudita. I soli soldati che inscenarono una qualche resistenza furono i cadetti, che non erano stati avvertiti». Ho udito racconti analoghi quando servivo ad Amman (1989-1992). Nel 1979, allorché militanti islamici occuparono la sacra moschea della Mecca, dovette intervenire un reparto d'assalto francese per farli sloggiare.
Questi tre paesi (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Kuwait) messi assieme hanno speso, in quattordici anni, oltre 380 miliardi di dollari. Nello stesso periodo, la spesa militare iraniana è ammontata a 49,5 miliardi e quella dell'India (che ha oltre un miliardo d'abitanti e controversie di confine con Pakistan e Cina) a 156 miliardi.
Anthony H. Cordesman e Arleigh A. Burke, del Center for Strategic and International Studies (CSIS), nel 2002 scrissero una relazione sui problemi della sicurezza saudita, da cui riportiamo il seguente brano: «Non dovrebbero più esserci altri ingenti invii di armamenti dagli USA o dall'Europa, simili a quelli avvenuti durante la Guerra del Golfo, o un altro acquisto stile "al-Yamama". A meno d'una grande guerra futura, gli acquisti dovrebbero essere fatti e giustificati caso per caso, andrebbero messi al bando il baratto col petrolio e tutti gli accordi bilanciati soggetti ad un resoconto pubblico annuale, con contabile e revisore indipendenti. Inoltre l'Arabia Saudita deve compiere il massimo sforzo possibile per eliminare gli sprechi finanziari».
Nel dicembre 2005 “The Guardian” rese nota la firma d'un contratto multimiliardario di vendita dei Typhoons, o Euro-fighters. La cosa interessante è che la vendita veniva giustificata con la minaccia del terrorismo globale. Il Ministero della Difesa britannico dichiarò che l'obiettivo fondamentale dei due governi era quello di garantire la sicurezza nazionale e «combattere il terrorismo globale».
Nel 2005, dei 133,5 miliardi di dollari guadagnati con la vendita di petrolio, l'Arabia Saudita ne spese 38,5 per la difesa. Buona parte dei 57,1 miliardi di sovrappiù furono destinati al pagamento dell'enorme debito contratto dall'Arabia Saudita con l'Occidente in occasione della prima Guerra del Golfo (1991). I media riferiscono che i prìncipi assumono personalmente commissioni d'armamenti ed accordi commerciali, e che il loro denaro - stimato complessivamente in un trilione di dollari - è per lo più investito in Occidente. Secondo alcune stime, il 40% delle entrate petrolifere saudite andrebbe a finire direttamente nelle tasche della famiglia regnante. Tariq Alì parlava a tale proposito di "saccheggio istituzionalizzato" dei fondi pubblici.
L'Ufficio Grandi Frodi britannico, prima d'essere fermato, ha scoperto laute bustarelle pagate da alcuni prìncipi sauditi, intermediari negli affari di fornitura bellica intercorsi tra i due paesi, al primo ministro Tony Blair ed al suo guardasigilli Goldsmith; esse riguarderebbero un verdetto, emesso dal governo, sulla legalità dell'invasione anglosassone dell'Iraq. I Sauditi temevano la cancellazione del multimiliardario contratto "al-Yamama". Transparency International, che cataloga i casi di corruzione nei paesi poveri, spesso si dimentica dei donatori e ricevitori di grandi tangenti.
È vero che, nel 1990, gli Statunitensi giocarono sulle fotografie aree della disposizione delle truppe irachene per convincere i Sauditi che Saddam Hussein progettava d'attaccare il Regno, ma forse fu la latente sensazione d'insicurezza che pervade l'Arabia Saudita a convincerla ad accettare la presenza dei Nordamericani, con conseguenze nefaste permanenti per la regione. Successivamente, gli USA ignorarono gli sforzi sauditi per garantire una pacifica ritirata delle truppe irachene dal Kuwait. Gli Americani erano venuti per restarci a lungo.
Governi, banche e compagnie petrolifere occidentali si sono abituati a giocare con la ricchezza petrolifera araba, che hanno chiamato "riciclaggio" e fatto pagare, mentre il riciclaggio dei loro stessi fondi diventa "investimento". Un coro di proteste e lamenti s'è alzato dall'Occidente allorché la Russia, risorta sotto Vladimir Putin, ha deciso di controllare le proprie risorse petrolifere tramite Gazprom, che ha acquisito da Shell, Mitsui e Mitsubishi il 50% più un'azione del progetto gasifero Sakhalin-2 (il cui valore è stimato in 20 miliardi di dollari); forte dei suoi petrodollari, ora Mosca vuole investire anche nella fase distributiva in Europa Occidentale e forse negli USA (ai Cinesi è stato impedito di comprare la UNOCAL - cosa che avrebbero fatto con un trilione di dollari - e la compagnia di Dubai che cura la spedizione verso i porti statunitensi). Analogamente, quando la Russia ha deciso d'adottare il prezzo di mercato per il gas venduto a Ucraina e Georgia - che si sono fatte in quattro per minacciare gl'interessi russi - i liberoscambisti d'Occidente hanno intonato in coro: «Non farlo!». E perché mai?! Oppure, se ad un qualche oligarca russo filooccidentale viene richiesto di pagare le tasse, i media occidentali si sciolgono in filippiche contro la Russia, le sue carenze democratiche ed il mancato rispetto dei diritti umani. Perché?! Non si tratta d'ipocrisia, ma di puro imbroglio. La Russia rifiuta di diventare come gli USA, che non sono una repubblica del popolo, ma una grande multinazionale, dove il complesso militare-industriale dominante è avviato verso la sua bancarotta Enron-izzante.
Nel contempo, in Arabia Saudita (ed in molti altri regni del Golfo) paura e segretezza permeano tutti gli aspetti della struttura statuale. Non vi sono partiti politici, sindacati, tutele dei lavoratori, difesa dei diritti degl'immigrati, gruppi femminili, né altre organizzazioni democratiche. Vi sono poche associazioni od organizzazioni legali che assicurano un processo giudiziario equo ed indipendente. Così, gli oppositori politici e religiosi possono essere detenuti indefinitamente senza processo, oppure imprigionati in seguito a giudizi grossolanamente pilotati. La tortura è endemica ed i lavoratori stranieri, in particolare quelli non musulmani, sono i più a rischio. Anche quando sono stati suoi cittadini a subire la tortura, il governo britannico è rimasto zitto, per amore del profitto derivante dal commercio di petrolio ed armamenti, nonché dalle tangenti (che viaggiano anche attraverso l'Atlantico per raggiungere gli USA, come apertamente dichiarato dall'ultimo Ambasciatore saudita).

Minacce interne

In questo momento l’Arabia Saudita è minacciata dall’interno, come dimostrano i numerosi attentati di al-Qaeda, che gode delle simpatie di vasti segmenti d’una popolazione intimamente conservatrice. Tuttavia, i gihadisti non sono l'unica minaccia: all’interno della popolazione in genere sorgono altre cause di preoccupazione. Nel 1969, 1972 e 1979 diversi gruppi nazionali si sono ribellati alla casata dei Saud. Solo le tribù di provata fedeltà hanno accesso alla carriera militare. Fino alla fine degli anni ‘80 il Pakistan forniva un contingente di 11.000-15.000 uomini, destinati alla protezione del governo saudita. Dopo che le truppe statunitensi si sono spostate dall’Arabia Saudita ad altri paesi, come il Qatar, i regnanti - secondo quanto riferito dal “Financial Times” - sono tornati a rivolgersi al Pakistan per ricevere alcuni soldati. La cooperazione militare tra i due paesi è vasta e di vecchia data. La manutenzione degli aeroplani e degli altri equipaggiamenti militari è per lo più affidata a personale del Pakistan, paese con cui il Regno ha strettissime relazioni difensive. Molte sono le testimonianze d’una loro cooperazione nel campo della tecnologia atomica militare. Se il metallurgista pakistano sunnita A. Q. Khan ha potuto spacciare competenze nucleari di tipo bellico alla Libia ed all’Iran sciita, ci si chiede perché non possa averlo fatto anche con l’Arabia Saudita. I media tedeschi pullulano di analisi in tal senso.
Volontari e denaro sauditi sono dietro agli attacchi che gli Statunitensi subiscono dall’Iraq al Nordafrica. Cittadini sauditi sono attivi nei ranghi della resistenza irachena, coinvolti in operazioni condotte a danno delle forze coalizzate filostatunitensi, delle cenciose forze di sicurezza irachene e della maggioranza sciita nel paese. La presenza di Sauditi in Iraq preoccupa profondamente non solo Baghdad e Washington, ma anche l’Arabia Saudita stessa ed i piccoli Stati del Golfo Persico, che vedono così una possibile futura minaccia alla loro sicurezza. Il ritorno in patria dei gihadisti sauditi rivitalizzerebbe l’opposizione nel Regno. L’esperienza maturata in Iraq potrà alterare il panorama insurrezionale in Arabia Saudita, grazie all’introduzione di nuove tecniche, metodi ed operazioni. Ma i Sauditi, dopo ogni violenza siglata al-Qaeda, ripetono regolarmente che quella sarà l’ultima.
Ebbene sì: i gihadisti sauditi (o d’altri paesi arabi del Golfo Persico) sono molto richiesti in Iraq, poiché portano con sé grosse somme di denaro contante. Reclutare sauditi agiati è un buon metodo per finanziare le operazioni terroristiche. Un rapporto confidenziale statunitense identificava come sauditi oltre il 50% dei ribelli, mentre un forum telematico si “limita” alla cifra del 40% (ma gli USA ogni volta biasimano la Siria). Ciò che preoccupa più d’ogni altra cosa è che, di quei Sauditi fatti prigionieri ed interrogati al loro ritorno dall’Iraq, circa l’80% risultava sconosciuto ai servizi di sicurezza: ciò la dice lunga sull’efficienza dei servizi segreti sauditi! Contribuiranno in modo significativo ad ampliare la violenza e la sovversione domestica in Arabia Saudita. La guerra in Iraq e la presenza statunitense nella regione hanno polarizzato larghi segmenti della popolazione saudita.

L'alta marea dell'alleanza

Dopo il guizzo dei prezzi petroliferi nel 1973, l'afflusso di grandi ricchezze in Arabia Saudita e nella regione del Golfo ha fatto sì che la bilancia degli affari e delle credenze religiose, che prima pendeva dalla parte delle versioni progressiste dell'Islam (praticate in Egitto, Siria, Libano, Iraq ed Algeria), volgesse a favore delle rigide tendenze wahhabite dell'Arabia Saudita. Ricordo che durante le mie ambascerie al Cairo ed in Algeria, nella prima metà degli anni '60, incontravo società musulmane tolleranti e cosmopolite. Ma dopo la metà degli anni '70 le cose cambiarono: persino tra i loro diplomatici ritornarono ortodossia, velo e foulard. La ragione di questa regressione dei Musulmani verso il modo di vita wahhabita può essere rintracciata nella potenza saudita, e nell'uso ch'essa ha fatto della ricchezza petrolifera per assecondare i gihadisti.
L'alta marea di questa profana alleanza si ebbe quando negli anni '80, al fine di scacciare le forze sovietiche dall'Afghanistan, si aggregarono la maggior parte dei paesi musulmani e molte potenze cristiane occidentali, e persino la Cina. USA, Arabia Saudita e Stati del Golfo spesero tra i 6 ed i 10 miliardi di dollari per la fornitura di armi ed equipaggiamento (e molti altri per l'addestramento) a mujahidin, gihadisti, militanti e terroristi. (Alcuni di questi, in seguito, sarebbero stati trasferiti dagli USA in Albania e Kosovo: là, negli anni '90, conquistarono una nuova visibilità internazionale). Il presidente pakistano Zia-ul-Haq, reo d'aver rovesciato ed impiccato il primo ministro Zulfiqar Alì Bhutto, sino al 1979 fu considerato alla stregua d'un paria. Desiderando consolidare la propria posizione, Zia sfruttò l'opportunità per islamizzare la politica del Pakistan per tutti i giorni a venire. Oggi gli elementi conservatori e fondamentalisti dominano ogni aspetto del Pakistan e si sono infiltrati nelle sue Forze Armate, grazie all'esperienza ed alle relazioni maturate durante l'addestramento e l'organizzazione dei mujahidin, dei gihadisti e dei gruppi terroristi pakistani ed afghani; qui operò soprattutto l'Inter-Services Intelligence (ISI) coadiuvata dalla CIA e da altri servizi segreti musulmani ed occidentali. L'ISI, ch'è uno "Stato dentro lo Stato", stabilì solidi e profondi rapporti con i capi dei mujahidin e di al-Qaeda, e più tardi con quelli dei Talebani, che avrebbero mutato il corso della storia del Pakistan e della regione, instaurando fitte e longeve ramificazioni per il mondo. I Talebani furono forgiati dal Pakistan, con l'aiuto e l'aperto riconoscimento dell'Arabia Saudita e con l'incoraggiamento degli USA, al fine di pacificare l'Afghanistan dopo il caos originato dal ritiro delle truppe sovietiche. Gli Statunitensi erano interessati a che la UNOCAL potesse utilizzare il territorio afghano per costruirvi gasdotti ed oleodotti, i quali avrebbero trasportato gl'idrocarburi centroasiatici fino alle coste del Mare Arabico (e da qui al più vasto mondo) ed all'India in rapido sviluppo ed assetata d'energia.
Quadri e dirigenti di al-Qaeda e dei mujahidin arabi e musulmani addestrati in Pakistan e Afghanistan, tornando ai loro paesi del Vicino Oriente, diffusero quella cultura che oggi minaccia la regione e s'è infiltrata persino in Europa, dove sono ospitate decine di milioni di musulmani. L'Arabia Saudita ha sempre spedito, direttamente o attraverso donazioni per l'edificazione di moschee, denaro ed aiuti per la nascita di madrasse, dalle quali si diffonde l'odio verso i non musulmani (in particolare i cristiani) e gli sciiti. Il grande Jihad afghano fu un'ottima occasione per i wahhabiti. I gihadisti ed al-Qaeda, creata da Osama bin Laden, si convinsero d'aver sconfitto da soli l'Unione Sovietica, la superpotenza numero due, ed oggi sperano di poter fare lo stesso con gli USA, l'iperpotenza. Dopo la guerra del 1991, condotta per liberare il Kuwait dall'occupazione irachena, lo stanziamento di truppe statunitensi nella conservatrice Arabia Saudita ha agevolato il diffondersi dell'animosità contro Washington.

L’intreccio messo a dura prova

Questo intreccio così incongruente è sopravvissuto a numerose tensioni e turbamenti, come quando negli anni '70 l'OPEC (capeggiato dai Sauditi) quadruplicò il prezzo del petrolio a seguito dell'offensiva egiziana contro Israele (Guerra dello Yom Kippur, 1973). Washington, in quell'occasione, meditò persino di spedire le proprie truppe ad assumere il controllo dei pozzi petroliferi dell'Arabia Saudita. I rapporti tra gli USA ed il Regno furono davvero in bilico quando Osama bin Laden, già inviato dell'Arabia in Pakistan per condurvi il Jihad contro i Sovietici in Afghanistan, creata al-Qaeda mise in atto alcuni attentati contro ambasciate statunitensi nell'Africa orientale. La situazione, però, esplose in tutta la sua gravità sugli schermi televisivi del mondo intero, allorché quindici dirottatori, assunto il controllo di quattro aerei statunitensi, attaccarono i simboli della potenza nordamericana - le torri del World Trade Center ed il Pentagono - scalfendo così il mito dell'intangibilità del suolo nazionale degli USA. Ma persino in quell'occasione, in virtù del profondo coinvolgimento degl'interessi energetici statunitensi - rappresentati dalla famiglia Bush e da buona parte della classe dirigente nordamericana - i membri della famiglia di Osama bin Laden furono clandestinamente evacuati dagli USA nel giro di poche ore dagli attacchi dell'11 settembre.
In generale, la maggior parte dei media e dei cittadini statunitensi cominciò a rilasciare furiosi e virulenti commenti ostili al Regno saudita. Dimenticavano che le galline allevate in Pakistan e Afghanistan erano tornate a casa per appollaiarsi. Anziché imparare la lezione dell'11 settembre, l'amministrazione Bush, plasmata dalla razzista filosofia straussiana dei neo-cons, dapprima bombardò l'Afghanistan (del resto già in macerie, proprio per colpa della rivalità USA-URSS, di cui era stato un campo di battaglia) al fine di installare basi militari in quel paese così come in Pakistan, Kirghizistan e Uzbekistan, con lo scopo apparente di combattere il terrorismo. Dopo di che, USA e Regno Unito, con l'appoggio di qualche altra nazione occidentale, invasero l'Iraq per prendere il controllo delle sue risorse petrolifere, ed in particolare della ricca regione di Baghdad (oggi, tutto ciò che gli Statunitensi controllano è la sola Green Zone). Ma gli USA hanno costruito in Iraq altre basi militari destinate ad una lunga permanenza.
Tutto ciò faceva parte d'un piano neoconservatore, battezzato "The New American Century", che, come s'è scoperto dopo il suo fallimento, era stato architettato da quei classici esperti "da salotto", la maggior parte dei quali, per inciso, erano ebrei animati fondamentalmente dal desiderio di favorire gl'interessi d'Israele. Non si crucciavano certo che le vite ed i denari statunitensi fossero spesi per rendere Israele "più sicuro e protetto", come già avvenuto nel 1991 con la guerra contro l'Iraq.
Zbigniew Brzezinski, consigliere alla sicurezza nazionale del presidente Jimmy Carter (oggi tramutatosi in un angioletto), aveva gongolato sulle pagine del "Nouvel Observator" parigino, quando rivelò come gli Statunitensi avessero sostenuto gli estremisti religiosi in Afghanistan contro il governo di sinistra proprio allo scopo d'attirarvi le truppe sovietiche ed ivi assistere alla loro sconfitta, per vendicare la propria disfatta in Vietnam. Da ciò derivò il collasso dell'Unione Sovietica. All'osservazione che con quella strategia s'era prodotto qualche "fermento" tra i musulmani, Brzezinski rispondeva: «E allora?». Allora niente... almeno finché i "musulmani in fermento" non avrebbero attaccato gli USA (11 settembre) e Londra (7 luglio), per tacere degli attentati terroristici in Spagna, a Bali (contro gli Australiani) ed ancora in altre località. L'India, che pure non faceva parte dell'asse saudita-pakistano-statunitense contro Afghanistan e URSS, ancor oggi ne patisce le conseguenze. Anche molti altri, estranei ai fatti d'allora, stanno pagando il prezzo di questo intreccio profano, e così sarà per ancora molto tempo.
Washington ha sfruttato il terrore di al-Qaeda, di cui pure non v'è traccia negli USA, per ridurre la libertà e la democrazia. Perché, se è vero che i musulmani neri non andarono in Pakistan a farsi addestrare per il Jihad afghano, essi avrebbero tuttavia molte rimostranze da fare; specialmente quelli - e sono moltissimi - rinchiusi nelle carceri statunitensi. Il Pakistan ne ha risentito profondamente. Quando Omar Sheikh fu accusato dell'omicidio del giornalista statunitense Daniel Pearl (il quale era giunto troppo vicino a scoprire il legame tra gihadisti, al-Qaeda, ISI e Pakistan), suo padre lamentò che, finché i gihadisti combattevano contro l'URSS, erano considerati degli eroi, mentre ora sono diventati nemici e "terroristi". Eh, sì, perché se ti schieri a fianco di una grande potenza, allora devi eseguirne gli ordini, oppure potresti essere bombardato "fino a tornare all'età della pietra", come pubblicamente confessato dal presidente pakistano gen. Pervez Musharraf. Quella fu la minaccia che, dopo l'11 settembre, il vicesegretario di stato nordamericano Richard Armitage rivolse al Capo dell'ISI; al Pakistan non restò altra scelta che aggregarsi agli USA nella lotta contro al-Qaeda, i gihadisti ed i Talebani, sue stesse creature.
Va anche detto che, per portare l'esercito pakistano dalla loro parte e senza renitenze, gli USA rovesciarono nel paese miliardi di dollari in aiuti militari, inclusi sofisticati armamenti navali che, a quanto pare, dovevano servire a combattere i Talebani fra le montagne afghane... Visti gli USA sprofondare nel pantano iracheno, il Pakistan è sceso a patti con i suoi Talebani delle aree di confine, persino invitando la NATO a fare lo stesso. Come ripetutamente affermato dal presidente afghano Hamid Karzai, gli attacchi contro la NATO nascono in territorio pakistano. I Talebani di base in Pakistan, appoggiati dagli elementi conservatori locali, hanno assunto il controllo del Pakistan nordoccidentale, dove addestrano i terroristi di tutta la regione, inclusi quelli provenienti dall'Uzbekistan o dalla regione turcofona cinese dello Xinjiang. Questi volontari vanno ora a combattere in Afghanistan. A questo punto l'obiettivo del Pakistan è quello di recintare la "linea Durand", che divide i Pashtun tra Pakistan e Afghanistan. Ma questo confine rimane per i Pakistani il proverbiale elefante in camera, poiché i Pashtun non l'hanno mai riconosciuto. Il Pakistan è profondamente infettato dal virus gihadista, ed anche da altri malanni. La produzione d'oppio in Afghanistan ha raggiunto livelli da primato ed è smerciato via Pakistan, dove il numero dei tossicodipendenti è passato da poche migliaia a diversi milioni. La droga ha portato con sé la cultura della violenza fondata sul Kalashnikov.

Commenti conclusivi

Dalla Prima Guerra Mondiale, con la creazione di nuovi Stati da parte dei capricciosi padroni coloniali britannici e francesi, ben poco è cambiato negli arbitrari confini dei paesi del Vicino Oriente, eccezion fatta per la creazione dello Stato d'Israele, che può essere vista come un compenso elargito all'ebraismo europeo per i crimini compiuti nella maggior parte d'Europa dalla Germania nazista e dai suoi collaboratori (compenso che però, curiosamente, viene pagato dai Palestinesi!). Dopo la Guerra Arabo-Israeliana del 1949 e la Guerra dei Sei Giorni del 1967, Israele continua a tenersi stretti i Territori arabi occupati. Con l'apertura del vaso di Pandora, sulla scia dell'invasione dell'Iraq nel 2003, sono state scatenate forze epocali, etniche e religiose destinate a mutare la geografia e la storia della regione, a cominciare dall'Iraq, dove stanno ormai emergendo tre entità su base etnica o settaria. L'invasione ha già risucchiato l'Iran e probabilmente, che lo vogliano o no, altri paesi vicini rimarranno ancor più apertamente invischiati.
Ormai lontano nel tempo il ricordo della guerra tra le dune del deserto, per i Sauditi la ricchezza petrolifera è divenuta troppo allettante perché si mettano ancora a combattere: un po' come per gli Arabi abbassidi, che dal nono secolo cominciarono a godere dei frutti del loro impero e lasciarono l'esercizio delle armi agli schiavi turchi importati dall'Asia Centrale; ben presto, però, le spade turche presero il potere nelle figure dei Sultani, che s'imposero quali protettori degli sfortunati Califfi e, talvolta, proibirono loro persino di reclutare servitori turchi.
Quando nei primi anni '60, a due passi da casa, in Yemen, gli ufficiali dell'esercito (affascinati dal nazionalismo arabo e dal socialismo di Gamal Abdel Nasser) rovesciarono il Re e fecero il loro ingresso le truppe egiziane, il Regno saudita non intervenne militarmente, ma si limitò a finanziare le forze monarchiche. Più tardi, quando gli Egiziani abbandonarono lo Yemen, i Sauditi mediarono tra le fazioni belligeranti.
Quando, a seguito della disgregazione dell'Unione Sovietica, emersero le repubbliche turche dell'Asia Centrale, l'Arabia Saudita, fedele al suo stile, inviò denaro per istruire mullah, aprire madrasse, costruire moschee e distribuire milioni di Corani. Gli apparatčki, postcomunisti e laici, che avevano assunto il controllo come nuovi governanti, si scontrarono duramente con i gihadisti addestrati dentro o attorno il Pakistan. Gli estremisti ed i militanti musulmani in Asia Centrale sono chiamati "wahhabiti".
Durante la Guerra Fredda, l'Arabia Saudita ed altri regimi musulmani religiosi e conservatori furono sostenuti e strumentalizzati dall'Occidente per combattere comunismo, socialismo e nazionalismo, essenzialmente allo scopo di tutelare gl'interessi economici, politici e strategici degli USA. I Sauditi, obbedendo alle direttive statunitensi, accettarono di scambiare il greggio in petrodollari e di manipolare i prezzi del petrolio, in modo da soddisfare le esigenze occidentali. In questa maniera gli USA possono sostenere un massiccio deficit di conto corrente, grazie al quale oggi finanziano quasi per intero il loro bilancio militare, pari a quello del resto del mondo messo assieme. I wahhabiti, dal canto loro, hanno avuto mano libera nel paese, tanto ch'è ormai ridotto ad una parodia del Medio Evo, dove ai ladri vengono tagliate le mani e gli adulteri sono lapidati. Si sta cercando d'imporre questo modello anche agli altri musulmani, ovunque gli estremisti assumano il controllo: vedi i Talebani in Afghanistan o nel Pakistan nordoccidentale. Paragonato all'Arabia Saudita, il Regno hashemita di Giordania, il cui Sovrano discende direttamente dal profeta Muhammad, è quasi una nazione moderna: vi sono leggi avanzate e libertà femminile nel lavoro, nell'educazione e nell'abbigliamento.
Vale la pena chiedersi perché la grandissima ricchezza petrolifera della penisola non sia stata utilizzata per elevare il tenore di vita dell'Umma musulmana, che i Sauditi pretendono di rappresentare e guidare in virtù del loro controllo sui sacri santuari della Mecca e di Medina. Non c'è un grande "Piano Marshall", tipo quello applicato dagli USA per promuovere la crescita economica europea dopo le devastazioni della Seconda Guerra Mondiale. Certo, vi sono dei palliativi, ma sempre connessi alla promozione dell'Islam wahhabita.
La prosperità generata dal petrolio ha beneficato principalmente le potenze occidentali, che hanno protetto la famiglia Ibn Saud, cosicché migliaia di prìncipi e principesse possono sguazzare nell'oro e nel lusso. Non serve un Sofocle per concludere che la dinastia saudita ha ritardato, direttamente o indirettamente, lo sviluppo sociopolitico ed il progresso di quella stessa Umma musulmana di cui essa presume di essere, per usare le parole di Obaid, «la guida de facto», nonché di sentirsene «religiosamente responsabile».
Osservando l'ascesa e la caduta dell'Impero Ottomano - che sopravvisse cinque secoli e coprì un'area più vasta dei dominî arabi - ci si accorge che il suo declino cominciò quando il Sultano divenne guardiano della Mecca e di Medina ed assurse al Califfato. Ne risultò infatti un influsso nefasto dei chierici, degli sceicchi e dei mullah conservatori sulla classe dirigente di Istanbul, che fu condotta all'oscurantismo ed alla feroce opposizione a qualsiasi idea o tecnologia moderna, persino in campo bellico, tanto che la Turchia diventò il "malato d'Europa". La Repubblica Turca invece, fondata sull'educazione e sulle idee moderne, può stare alla pari dell'Europa per sviluppo economico e progresso. Dieci anni fa strinse un accordo doganale con l'Unione Europa ed i suoi prodotti riuscirono a tener testa ai migliori manufatti europei. Sebbene quasi del tutto priva di petrolio, il suo PIL è pari alla metà di quello di tutti gli Stati arabi messi assieme. Ma senz'altro l'Europa cosiddetta "laica" non ammetterà Ankara quale membro a pieno diritto, poiché il 99% dei Turchi è musulmano...
L'espansione ed il progresso del Califfato abbasside furono dovuti alle idee, accolte da ogni dove, ed alle nuove invenzioni scientifiche. Le idee conservatrici (ed in particolare la filosofia wahhabita), invece, hanno fatto tornare indietro l'Umma musulmana, rendendola incapace di reggere il confronto con la crescente potenza militare e scientifica dell'Occidente, e quindi inadeguata a liberarsi dalle catene che la imprigionano. Ma quel che importa è che vi sia un gran luccichio d'oro, vetro ed alluminio negli Stati del Golfo ricchi di petrolio...!

L’intreccio precedentemente descritto incanala le ricchezze verso le madrasse, dove si studia a memoria il Corano, ma poca matematica e poca scienza, e le innovazioni sono bandite; la conseguente incapacità d'affrontare i sempre più complessi problemi dei tempi moderni ha fatto rotolare all'indietro i Musulmani. Questa cultura può produrre soltanto al-Qaede, gihadisti e distruzioni, ma non una risposta assennata e scientifica al consumismo ed all'espansione dell'Occidente, che quotidianamente copre d'umiliazioni il mondo arabo e musulmano. Certo si potranno architettare nuovi spettacolari attentati, come l'11 settembre o il 7 luglio, ma questi non libereranno l'Umma dalla dominazione e dallo sfruttamento cui è stata sottoposta negli ultimi due secoli dai cristiani occidentali. C'è un insegnamento che si può trarre dall'attuale miseria e dalle sofferenze infernali che patisce lo sventurato popolo iracheno, posto sotto il tallone dell'occupazione militare statunitense (durante la quale sono morte più di mezzo milione di persone dal marzo 2003). Si prenda l'Iran, dove la politica statunitense ha soltanto rafforzato gli elementi conservatori. Eppure sono anche garantite la libertà e l’istruzione delle donne, che possono lavorare negli uffici e guidare l'automobile. L'ammodernamento promosso dal moderato presidente Khatami è stato solo interrotto dall'irruzione statunitense a due passi da casa, che ha costretto il paese a mettersi sulla difensiva. Il popolo iraniano ha imparato che tornare indietro non risolve né i vecchi problemi né quelli nuovi proposti dall'era moderna: per questo non sopporta più il giogo soffocante dei mullah.

La rottura dell’intreccio statunitense-saudita-wahhabita lascerà libere le masse musulmane, sinora tenute incatenate a idee retrive, e le avvierà verso la moderna educazione, le scienze naturali, le innovazioni ed il progresso in grado di sfidare l'Occidente. Ma lo sconvolgimento portato dalla rivoluzione khomeinista in Iran sembrerà una passeggiata, paragonata a quella che sarà la rivoluzione nell'Islam sunnita, dove l'oscurantismo e gl'interessi particolari (interni ed esterni) non s'arrenderanno facilmente. Forse i tempi tendono ad un cambiamento così cataclismatico.

Prima della Grande Guerra, i Tedeschi progettavano di raggiungere Bassora con una ferrovia, grazie all'appoggio ottomano, in modo da aggirare l'Impero Britannico in India (il gioiello più prezioso della Corona inglese). Dal canto loro gli Ottomani, influenzati dai Giovani Turchi dell'eccentrico Enver Pascià, speravano d'arginare Mosca e creare un impero panturco esteso fino al Turkestan russo. I risultati, però, non corrisposero alle aspettative, ed anzi gettarono le fondamenta per una distruttiva seconda guerra mondiale, per l'ascesa della Germania nazista, per l'olocausto degli Ebrei e degli Zingari in Europa. E pure per la decolonizzazione e la fine degl'imperi britannico, francese ed europei in genere.


(Traduzione di Daniele Scalea)

* K. Gajendra Singh, diplomatico indiano oggi in pensione, è stato ambasciatore in Turchia (e Azerbaigian) dall'agosto 1992 all'aprile 1996; in precedenza aveva ricoperto il medesimo ruolo in Giordania, Romania e Senegal. Attualmente presiede la Foundation for Indo-Turkic Studies. Ha già collaborato a "Eurasia, rivista di studi geopolitici" con diversi contributi: la redazione di quest'ultimo è stata terminata il 30 dicembre 2006.

mercredi, 24 juin 2009

Iran's Election: None of America's Business

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Iran’s Election: None of America’s Business

 

So far, we're staying out of it – but for how much longer?

by Justin Raimondo - http://original.antiwar.com/ 

Was it Daniel Pipes’ endorsement of President Mahmoud Ahmadinejad that put the Holocaust-denying hard-liner over the top in Iran’s recent presidential "election"? Or was it the massive – and fairly obvious – fraud committed by the Ahmadinejad camp?

Joking aside, at least for the moment, one has to wonder: what else did anybody expect? Iranian elections have hardly been models of democratic governance in the past. The supreme leader, Ayatollah Khamenei, prefigured the probable upshot of all this when he announced that a victory for leading opposition candidate Mir Hossein Mousavi would amount to a repudiation of him personally – and the crackdown we are witnessing could only have come about as a direct result of Khamenei’s order.

The U.S. government – or, at least, one branch of it – didn’t help matters much. Their fast-tracking of draconian new sanctions on Iran right before Iranians went to the polls could only have helped Ahmadinejad. How’s that for timing?

In any case, the Mousavi challenge was a frontal assault on the legitimacy of the current regime, and they have responded just as tyrannical elites have always responded, with deadly force and brazen fraud.

Ahmadinejad has led his country into an economic dead end, with record unemployment, gas shortages, and a high inflation rate. That, combined with U.S. President Barack Obama’s remarkable outreach to the Iranians – a video message of friendship, an offer to negotiate with Iranian leaders without preconditions, and an unprecedented acknowledgment of the U.S. government’s role in overthrowing Mohammed Mossadegh’s democratically elected government in 1953 – would have sounded the death knell of the current gang if the election had been allowed to proceed unobstructed. As it was, the hard-liners sealed off Iran from the rest of the world as Mousavi’s overwhelming victory became apparent, placed the candidate under house arrest (or so it seems from numerous unconfirmed news reports), shut down the Internet, and unleashed their "Revolutionary Guards" on student-led protest demonstrations.

The swiftness of the hard-liner response, however, can be deceiving. Apparently, there was confusion in the Ahmadinejad camp as Mousavi’s victory loomed large. We are getting reports that the authorities informed Mousavi of his impending election victory before the polls had even closed, and he was advised to "moderate" his victory speech for fear of provoking a violent response from Ahmadinejad’s supporters, many of whom are members of the "revolutionary" militias. The reformist newspapers, too, were told they were not allowed to use the word "victory" in reference to Mousavi when reporting election results – but at least they were allowed to report it. Or so they thought.

Shortly afterward, however, these same newspapers were taken over by armed assailants, Mousavi’s election headquarters were surrounded by military forces under the hard-liners’ command, and the regime’s thugs were called out into the streets – where they met Mousavi’s mostly youthful supporters in bloody clashes throughout the country.

Like Juan Cole, I will readily admit that I may be wrong about the veracity of the hard-liner coup narrative, and I may very well have fallen for what some are calling the "North Tehran Fallacy" – the idea that Western reporters were lured into believing that Mousavi was the winner because they are all based in a relatively affluent and Westernized part of the Iranian capital. (Cole, by the way, denies the validity of the North Tehran thesis, though it seems plausible to me.) Yet that really has no relevance to the main point of this column, which is this: America has no business intervening in Iran’s internal affairs, including its presidential election. Period.

To do so would play right into the hands of Iran’s hard-liners – and their neoconservative cheerleaders (both overt and covert) in this country. Whatever support the kooky Ahmadinejad had managed to garner – according to leaked and unconfirmed reports, about 30 percent of the total – was due almost entirely to external factors, principally the U.S.-led campaign to strangle the Iranian economy and rile up ethnic and religious minorities. This, in turn, has redounded to the hard-liners’ benefit, as anti-Americanism – long a staple of Iranian politics – has reached record levels throughout the region.

So far, the Obama administration has kept its collective mouth shut pretty tight – except, of course, for Joe Biden – and that’s a good thing. What isn’t so good is that the White House will almost surely be forced to pronounce some sort of verdict or judgment on the apparently fraudulent election results. Criticism, however mild, coming from Washington, will surely be used by Ahmadinejad & Co. as a pretext to declare a state of "emergency" and engineer a total crackdown. And the possibility of a dramatic showdown between the two Iranian camps is increasing by the moment: Mousavi is reportedly calling for his followers to take to the streets in protest – although there is some fear that this may be a trap set by the regime – and what follows may very well turn out to be an Iranian replay of what happened in China’s Tiananmen Square, at least as far as the rest of the world sees it.

What this means, in terms of U.S. foreign policy, and the building "crisis" around U.S.-Iranian relations, is that the prospects for a negotiated settlement of the outstanding issues between the two countries have darkened considerably. Yes, I know Obama has declared his intention to soldier on in the "outreach" effort, but this will become increasingly untenable – and make it fairly easy for him to backtrack – as the authority and legitimacy of the Iranian government continues to deteriorate, as it will.

And we should not forget that, in spite of public assurances from the U.S. president that the administration wants peace, is prepared to negotiate, and that it’s time for "a new beginning," the Americans continue their covert action operations directed at Tehran – as recent bombings and other disturbances in the eastern non-Persian provinces have shown. Is the U.S. involved in the current street fighting in Tehran and other major cities? I wouldn’t be at all surprised to have this suspicion confirmed in coming days. After all, in 2007 Congress appropriated $400 million to destabilize the Iranian regime, and who’s to say this program isn’t bearing fruit?

U.S. military leaders are vehemently opposed to launching yet another war in the Middle East, and their stubborn resistance to the idea – floated by Bush’s neocon camarilla in the latter days of the Decider’s reign – scotched the War Party’s attempts to make sure Obama inherited a Middle East aflame. Yet their efforts will have reached beyond the previous administration’s grave – and succeeded in dragging Obama down with them into hell – if events in Iran provoke an ill-considered response from the U.S.

Whenever there are election "irregularities" anywhere outside the U.S., American government officials have a bad habit of getting up on their high horses and lecturing the rest of the world on how best to conduct their own internal affairs. Never mind that the U.S. itself has only two officially recognized political parties, both of which are subsidized with tax dollars, and that any potential rivals must jump through a number of hoops to even get on the ballot. We’re a legend in our own minds – the world’s greatest "democracy" – and anyone who questions this dubious claim is immediately charged with "anti-Americanism."

Yet even if that were not the case – even if our democratic procedures were flawless – that still wouldn’t give the U.S. government any standing to pass judgment, because how Iran conducts its presidential elections is not a legitimate concern of the U.S. government. The idea that the occupant of the Oval Office must pass moral judgment on all events, including other countries’ elections, is a byproduct of America’s imperial pretensions and delusions of "world leadership."

The Israel lobby, which has been pushing for a U.S. confrontation with Iran, is revving up its engines even now to push harder for increased sanctions and other provocative moves by the U.S. Obama, I fear, will prove unable to resist all that pressure, though I’d love to be proven wrong.

mercredi, 10 juin 2009

Faux dialogue avec un faux islam

Faux dialogue avec un faux islam

Ex: http://www.insolent.fr/

 

090603 Le président Barack Obama, partant pour l'Égypte et pour l'Arabie ne pouvait pas mieux poser le problème : "Les États-Unis et le monde occidental doivent apprendre à mieux connaître l'islam" (1).

Mieux connaître l'islam et les pays musulmans ? Excellente intention. Nous ne saurions trop lui recommander, à cet égard, la découverte des travaux de Henri Lammens. (2)

Mais le sens véritable de ce discours du chef d'État américain avait été expliqué dès sa prestation lors du Forum de la prétendue "alliance des civilisations" à Istanbul, les 6 et 7 avril 2009. L'idée stratégique, qui se veut géniale, consiste à tendre la main à ceux qu'on considère comme des "islamistes modérés". Pas très original. GW Bush ne disait pas autre chose. VV Poutine le répète tous les jours. En 2001, Margaret Thatcher avait fait scandale en remarquant le peu d'empressement de tels amis à condamner le 11 septembre.

Disons donc à ce sujet, sans exclure nécessairement la pertinence d'un tel calcul, qu'on gagne à savoir de quoi on parle.

Or, l'étiquette a été inventée, et a commencé d'être utilisée pour désigner le parti AKP, actuellement majoritaire au parlement d'Ankara, et dirigé d'une main de maître par son fondateur Recep Tayyip Erdogan.

Le sophisme politiquement correct consiste à en faire l'équivalent oriental de la démocratie chrétienne.

Il nous semble donc utile d'en savoir plus sur les idées et sur les références de cet homme politique et de son mouvement.

Certains imaginent parfois le chef du gouvernement actuel d'Ankara comme une sorte d'habile démagogue "populiste". Corrigeons cette erreur. Sous ses dehors apparemment violents et sanguins, capable de claquer la porte d'un débat qui lui déplaît (3) il s'agit d'un personnage fin et subtil

La plus grosse bourde politique qu'on lui connaisse fut de réciter, il y a plus de 10 ans l'œuvre d'un poète.

On aime beaucoup les poèmes en orient, on les comprend un peu moins bien en Europe. Connaître l'Islam consiste aussi, cependant, à savoir entrer dans cette logique.

Ainsi, l'actuel Premier ministre a beaucoup pâti d'un fameux discours. Prononcé en décembre 1997, lors d'une campagne électorale à Siirt, ville dont il deviendra député lors d'une élection partielle en mars en 2003 (4), quelques phrases firent scandale.

L'orateur sera jugé en 1998. Et il purgera même en 1999 une peine de prison de 4 mois, assortie d'une privation de ses droits civiques de 5 années. À cette date, et pour cette raison, il prendra le virage décisif de sa carrière. Il décide en effet de se séparer, pour des raisons de méthode, de son vieux chef Necmettin Erbakan. Rappelons que sous l'étendard de ce dernier, il avait conquis en 1994 pour les islamistes la mairie d'Istanbul.

Le fameux passage incriminé doit être rappelé : "Les minarets sont nos baïonnettes, les coupoles nos casques, les mosquées nos casernes et les croyants nos soldats."

Or, à première vue on serait tenté de juger le propos ambigu. On pourrait même l'interpréter comme une volonté de conquête pacifique par l'islamisation, par les "mosquées" plus que par les "casernes".

Comment se fait-il que, pour ce simple extrait d'un poème, pour une citation littéraire en somme, car il s'agit de cela, on l'ait mis un temps au ban du débat démocratique ?

Redisons-le : proclamé inéligible, il attendra plusieurs années avant d être réintégré dans l'espace de la république. On ne pouvait faire moins dans un régime se prévalant des valeurs occidentales que de reconnaître, un an après la victoire de son parti, que le peuple avait tranché en sa faveur.

Selon les critères habituels de l'Union européenne, Erdogan peut même passer pour persécuté et ses adversaires laïcs pour d'odieux persécuteurs.

Nous soupçonnons d'ailleurs les négociateurs bruxellois d'en juger ainsi.

Nous constatons en effet qu'à Bruxelles on préfère discuter avec les islamiques qu'avec les laïques.

Peut-être changerait-on d'avis en découvrant l'identité du charmant "poète" véritable auteur du texte jugé explosif.

Car à son sujet, aucune ambiguïté ne saurait être invoquée.

L'auteur originel de la citation maudite s'appelait Ziya Gökalp, de son vrai nom Mehmed Ziya. Né en 1876, à Diyarbekir, certains le soupçonnent pour cette unique raison d'une ascendance kurde. Il prendra son pseudonyme de Gökalp, qui signifie "le héros bleu", en tant que militant puis dirigeant du parti "Union progrès" : il fera figure de théoricien de la révolution jeune-turque.

Rappelons que ce mouvement était dirigé essentiellement contre ce qu'on appelait, alors, "l'ottomanisme". C'est-à-dire qu'il refusait les politiques de réformes menées à partir des années 1830, période connue sous le nom de "Tanzimat", et dont le programme tendait à établir l'égalité civile et militaire entre toutes les composantes de l'Empire ottoman. Les jeunes-turcs s'opposaient à cette émancipation. (5)

Rêvant d'un grand empire allant de l'Albanie à l'Asie centrale, et théoricien lui-même de ce programme "pan-touranien" et "pan-turciste" Gökalp allait même plus loin dans la précision. À ses yeux on ne pouvait accorder aucune place aux minorités chrétiennes, aux "Grecs, Arméniens et Juifs, corps étranger dans la nation". L'égalité ne pouvait être reconnue aux "giaours" supposés infidèles puisque "islam veut dire soumission".

Il voulait d'autre part forcer la turcisation linguistique et ethnique de l'Empire.

On peut donc, à bon droit, considérer ce personnage comme un précurseur des totalitarismes du XXe siècle. Il sera écarté et exilé, entre 1919 et 1922, en raison de sa compromission avec les crimes jeunes-turcs. On peut dire enfin qu'il avait théorisé le génocide des Arméniens de 1915, que Talaat Pacha mit en œuvre et qu'Enver Pacha couvrit de son autorité politique.

Voilà la référence très poétique de l'actuel chef de gouvernement turc Erdogan. Peut-on vraiment assimiler son parti à l'inoffensive démocratie chrétienne ?

On aime beaucoup les poèmes en orient, on les comprend un peu moins bien en Europe. Pour cela, et pour quelques autres raisons, je pense inopportun de faire de la Turquie un État-Membre de l'Union.

Apostilles

  1. Déclarations sur Canal + le 2 juin
  2. cf. "À redécouvrir : L'Islam, croyances et institutions"
  3. Comme il l'a fait à Davos en janvier 2009.
  4. Ville kurde, Siirt avait voté en décembre 2002 à 32 % en faveur du parti kurde "Dehap". Mais celui-ci fut écarté de l'Assemblée, n'ayant pas obtenu 5 % à l'échelon national, et il donna aux élections partielle qui suivirent une consigne d'abstention. M. Erdogan, dont le parti venait d'obtenir la majorité des, sièges au parlement fut élu lors du scrutin partiel par 82 % des votants.
  5. cf. L'Insolent du 24 avril Racines jacobines des crimes turcs"

JG Malliarakis
2petitlogo

 

mercredi, 03 juin 2009

Il Pakistan sempre più instabile

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Il Pakistan sempre più instabile

  

Giovedì 28 Maggio 2009 – Matteo Bernabei - http://www.rinascita.info

  
 



Lo scontro tra l’esercito regolare pachistano e le milizie talibane cambia fronte e modalità.
Dopo la riconquista governativa della città di Mingora, la zona di combattimento si è spostata nella parte nord orientale del Paese. Spostamento dovuto, secondo le autorità di Islamabad, alla ritirata dei talibani cacciati dalla valle dello Swat dall’avanzata dei militari pachistani. Baitullah Mehsud, leader di Tehrik i Taliban Pakistan, aveva minacciato nei giorni scorsi di colpire le più importanti città
dello Stato se gli attacchi contro i suoi uomini non fossero cessati. Tutti fattori che avrebbero dovuto fare da avvisaglia all’attacco portato ieri dagli estremisti islamici contro una stazione di polizia a Lahore, nella provincia del Pakistan nordorientale del Punjab. Una delle aree più importanti del Paese considerata, tra l’altro, la capitale culturale del Pakistan, già il 4 marzo scorso teatro dell’attentato contro l’autobus della squadra di cricket dello Sri Lanka e che poche settimane vide il sequestro di 800 allievi di una scuola di polizia. L’attacco di ieri, compiuto con un’auto bomba carica di 100 kg di esplosivo e con il supporto di uomini armati, ha causato la morte di 27 agenti e il ferimento di almeno altri 300. Ma l’attentato rischia di essere solo l’inizio di una serie di azioni che potrebbero avere conseguenze ben più gravi. La strategia improvvisata e frettolosa, incoraggiata dagli Stati Uniti, con cui Islamabad ha deciso di portare avanti l’offensiva armata, e che ha messo in pericolo la popolazione nella valle dello Swat - avvisata con solo 24 ore di anticipo e impossibilitata a fuggire a causa del coprifuoco - rischia ora di degenerare completamente. Il fronte dello scontro è stato trasferito all’interno delle città, situate in regioni dove prima la presenza talibana era praticamente assente, offrendo inoltre la possibilità alle milizie islamiche di colpire senza dare alcun punto di riferimento alle forze armate regolari. Il tutto a scapito della popolazione che ancora una volta per salvarsi dovrà abbandonare le proprie case, questa volta però senza sapere nemmeno di preciso dove fuggire.

 

Pagina stampata dal sito rinascita.info il sito di Rinascita - Quotidiano di Liberazione Nazionale.
http://www.rinascita.info/cc/RQ_Mondo/EkuFVEApZFnSrlPpat.shtml

lundi, 01 juin 2009

La diplomatie turque instrumentalise un Islam de faux semblants

La diplomatie turque instrumentalise un islam de faux semblants

090526Une inquiétude circule en ce moment sur la toile, à propos de l'ouverture d'un bureau de propagande islamique, pardon : d'information, à Bruxelles, par le gouvernement d'Ankara. Et, certes, on peut s'inquiéter des contrevérités que déversera cette structure en direction des gogos européens, sur la prétendue tolérance coranique et autres mythes.

Mais je crois nécessaire aussi d'attirer l'attention sur un autre aspect du marché de dupes que la diplomatie de ce pays entretient en instrumentalisant, à son profit, et toujours à sens unique, le fait religieux.

Ainsi, le chef de l'État turc M. Abdullah Gül s'est rendu en Syrie, du 15 au 17 mai en visite officielle. Sur l'étonnante photo du dîner protocolaire à Damas, on peut voir MM. Assad et Gül aux côtés de leurs deux épouses. Et bien évidemment celle qui arbore son foulard traditionnel islamique vient d'Ankara.

Ce signe, devenu totalement banal n'intéresse pas les médiats, sauf pour les plus radicaux, peut-être les moins aveuglés, à y voir une preuve supplémentaire des distances, que prend, avec la laïcité constitutionnelle de la république, le gouvernement de l'AKP.

Ce commentaire vient immédiatement à l'esprit. Il peut cependant contenir une illusion, et par conséquent un danger. De tout temps la puissance ottomane a su se servir de la religion mahométane : elle n'a jamais sacrifié à celle-ci le moindre de ses intérêts.

Et cela continua même sous un Mustapha Kemal. Si dégagé de l'influence des sultans, si méprisant de la religion ancestrale, il aurait proclamé un jour : "cette théologie putride rêvée par un Bédouin immoral est un cadavre qui empoisonne nos vies". (1) Mais il n'a pas répugné à confier à une administration, le soin d'organiser des prêches du vendredi dans toutes les mosquées, de tous les villages du pays, dans la langue de l'État, et non plus du Prophète, et en conformité avec les directives du gouvernement.

Aujourd'hui l'objectif du gouvernement de l'AKP, théorisé par l'expert Davutoglu dont on vient de faire un ministre, consiste à remettre en selle l'influence de la Turquie dans un proche orient arabe incapable de se structurer par lui-même ni de se fixer des objectifs réalistes dans son contentieux avec Israël.

En cela le passage de Abdullah Gül à la Banque islamique de développement en Arabie saoudite, de 1983 à 1991, va évidemment au-delà du symbole. Ses biographes insistent sur la rupture qui l'aurait séparé du chef historique de l'islamo-nationalisme turc, M. Necmettin Erbakan. Or celui-ci avait été évincé par l'armée en 1997 alors qu'il présidait un gouvernement de coalition. On n'a jamais trop explicité ce qui le rendait infréquentable et ce qui, à l'inverse, permet aux deux compères Gül et Erdogan, ses disciples d'alors, de passer, aujourd'hui, pour acceptables.

L'explication la plus probable me semble tenir au système d'alliance qu'impliquerait aux yeux des musulmans turcs leur appartenance solidaire à la communauté islamique.

Pour Erbakan, l'expression de celle-ci eût conduit à la rupture de l'alliance militaire avec Israël. Cela, l'État-major et le Conseil de sécurité nationale d'Ankara (MGK) ne pouvaient l'admettre.

Pour Gül et Erdogan, plus subtils, il s'agit de se présenter désormais comme les porte-parole naturels et traditionnels des peuples musulmans : les déclarations du Premier ministre en janvier à Davos puis en avril celles du chef de la diplomatie (2) allaient explicitement dans ce sens et le voyage de Damas le confirme. Et, au nom de leurs frères, les compères demanderont à l'État hébreu de faire un certain nombre de concessions, bref de se montrer plus "raisonnable" que pendant les 8 années de la présidence de GW Bush. Cette habile attitude va par ailleurs dans le sens des préoccupations actuelles du département d'État à Washington.

Je n'en retire pas cependant, bien au contraire, la conviction que, par cette démarche, la Turquie prouve son appartenance à la famille des nations européennes. Pour cette raison et pour plusieurs autres je ne crois pas sérieux de vouloir l'imposer au sein de l'Union européenne.

 

Apostilles

  1. J'avoue apprécier, de cette affirmation, la radicalité existentielle. Souvent citée, cependant, je ne lui ai jamais trouvé d'autres sources que la biographie de Kemal par Benoist-Méchin
  2. M. Ali Babakan, après un forcing qui indisposa les Européens, fut remplacé par M. Ahmet Davutoglu.
JG Malliarakis

jeudi, 28 mai 2009

Obama et le guêpier pakistanais

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Obama et le guêpier pakistanais,
par Eric Margolis - Ex: http://contreinfo.info/

En quelques phrases sèches, Eric Margolis résume la situation, décrit les forces en présence et clarifie les enjeux. Embourbés dans une guerre ingagnable en Afghanistan, les USA qui bombardent déjà régulièrement le Pakistan ont poussé Islamabad à attaquer les pachtounes des zones tribales, au risque de faire voler en éclat la stabilité du pays et d’embraser la région tout entière. « Le véritable danger provient des États-Unis qui agissent comme un mastodonte enragé, foulant aux pieds le Pakistan, et contraignant l’armée d’Islamabad à faire la guerre à son propre peuple, » avertit Margolis qui connaît bien la région et les pachtounes pour les avoir côtoyés de près lors de la guerre contre les soviétiques.

Par Eric Margolis, Winnipeg Sun, 17 mai 2009

Le Pakistan a finalement cédé la semaine dernière aux demandes irritées de Washington, et a envoyé ses troupes contre la rébellion des tribus pachtounes des Provinces de la Frontière du Nord-Ouest - que l’occident dénomme à tort les « talibans ».

L’administration Obama avait menacé de mettre fin aux versements annuels de 2 milliards de dollars que reçoivent les dirigeants politiques et militaires du Pakistan en faillite et de bloquer 6,5 milliards d’aides futures, à moins qu’Islamabad n’envoie ses soldats dans les turbulentes zones tribales du Pakistan qui sont situées le long de la frontière afghane.

Cela s’est conclut par un bain de sang : quelques 1 000 « terroristes » tués (comprendre : la plupart sont des civils) et 1,2 millions de personnes - la plus grande partie de la population de la vallée de Swat - sont devenues des réfugiés.

Les forces armées pakistanaises instrumentalisées par les États-Unis ont remporté une brillante victoire contre leur propre peuple. Cela n’avait malheureusement pas été le cas lors des guerres contre l’Inde. Bombarder des civils est cependant beaucoup moins dangereux et plus rentable.

Washington, profondément déçu d’être incapable de pacifier les tribus pachtounes de l’Afghanistan (alias les talibans), a commencé à s’en prendre au Pakistan, tentant de venir à bout de la résistance pachtoune dans les deux pays. Les drones de la CIA ont déjà tué plus de 700 pachtounes pakistanais. Selon les médias, seuls 6% étaient des militants, et le reste des civils.

Les pachtounes, également improprement appelés pathans, forment la plus nombreuse des populations tribales. Quinze millions d’entre-eux vivent en Afghanistan, constituant la moitié de sa population. Vingt-six millions vivent au delà de la frontière du Pakistan. La Grande-Bretagne impérialiste a divisé les pachtounes par une frontière artificielle, la ligne Durand (qui forme aujourd’hui la frontière entre l’Afghanistan et le Pakistan). Les pachtounes rejettent cette frontière.

De nombreuses tribus pachtounes ont accepté de rejoindre le Pakistan en 1947, à condition que leur patrie soit autonome et libre de troupes gouvernementales. Les pashtounes de la vallée Swat n’ont rejoint le Pakistan qu’en 1969.

Lorsque les pachtounes du Pakistan ont accru leur aide à la résistance des pachtounes d’Afghanistan, les USA ont débuté leurs attaques de drones. Washington a contraint Islamabad à violer sa propre constitution en envoyant des troupes dans les terres pachtounes. Avec pour résultat l’actuelle explosion de colère des pachtounes.

J’ai vu les pachtounes faire la guerre et je peux témoigner de leur légendaire courage, de leur sens aigu de l’honneur et de leur détermination. Ils sont aussi extrêmement querelleurs, batailleurs et irritables.

On apprend vite à ne jamais menacer un Pachtoune ou à lui poser des ultimatums. Ce sont les guerriers montagnards qui ont défié les États-Unis en refusant de livrer Osama bin Laden, car il était un héros de la guerre anti-soviétique et était leur invité. L’ancien code de « Pachtunwali » guide toujours leurs actions : ne pas attaquer les pachtounes, ne pas tricher avec eux, ne pas causer leur déshonneur. Pour les pachtounes, la vengeance est sacrée.

Aujourd’hui, les politiques de Washington et les récentes atrocités de la vallée de Swat menacent de déclencher le pire cauchemar du Pakistan, au second rang après une invasion indienne : que ses 26 millions de Pachtounes fassent sécession et rejoignent les pachtounes d’Afghanistan pour former un état indépendant, le Pachtounistan.

Cela ferait éclater le Pakistan, inciterait probablement les farouches tribus balouches à tenter de faire sécession et pourrait tenter la puissante Inde d’intervenir militairement, au risque d’une guerre nucléaire avec le Pakistan assiégé.

Les pachtounes des zones tribales n’ont ni l’intention ni la capacité de se répandre dans d’autres provinces du Pakistan, le Punjab, le Sindh et le Baluchistan. Ils veulent seulement qu’on les laisse tranquilles. Les craintes d’une prise du pouvoir des talibans au Pakistan ne sont que pure propagande.

Les pakistanais ont rejeté à maintes reprises les partis islamiques militants. Nombreux sont ceux qui ont peu d’amour pour les Pachtounes, qu’ils considèrent comme de rustiques montagnards qu’il vaut mieux éviter.

L’arsenal nucléaire du Pakistan, bien gardé, ne représente pas non plus un danger - du moins pas encore. Les craintes au sujet des armes nucléaires pakistanaises proviennent des mêmes fabricants de preuves - ayant un agenda secret - que ceux qui nous ont sorti les fausses armes de Saddam Hussein.

Le véritable danger provient des États-Unis qui agissent comme un mastodonte enragé, foulant aux pieds le Pakistan, et contraignant l’armée d’Islamabad à faire la guerre à son propre peuple. Le Pakistan pourrait finir comme l’Irak occupé, divisé en trois parties et impuissant.

Si cela continue, les soldats pakistanais patriotes pourraient à un moment se rebeller et abattre les généraux corrompus et les politiciens qui émargent à Washington.

Tout aussi inquiétant, un soulèvement de pauvres se répandant à travers le Pakistan - lui aussi dénommé à tort « taliban » - porte la menace d’une rébellion radicale rappelant celle des rebelles naxalites de l’Inde.

Comme en Irak, ce sont une profonde ignorance et l’arrogance militariste qui conduisent la politique des États-Unis en Afghanistan. Les gens d’Obama ne comprennent pas ce vers quoi ils se dirigent en « Af-Pak ». Je peux le leur dire : un triste désastre que nous regretterons longtemps.


Publication originale Winnipeg Sun, traduction Contre Info

mercredi, 27 mai 2009

G. Deschner: Die Kurden - Volk ohne Staat

 

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Günther Deschner: Die Kurden. Volk ohne Staat

Ex: http://www.fes.de/


 
       
     
       
  München 2003
Herbig-Verlag, 349 S.
   
 

Nach Arabern, Türken und Persern sind die Kurden das viertgrößte Volk des Nahen Ostens. Ein 30 Millionen-Volk mit einer Jahrtausende alten Geschichte und Kultur, aber ohne eigenen Staat. Kurdistan findet sich auf keiner Landkarte. "Kurdistanim ka?" - "Wo ist mein Kurdistan?" singt der berühmte kurdische Barde Sivan Perwer und rüttelt damit die Kurden immer wieder auf zum Kampf für Freiheit und nationales Selbstbestimmungsrecht, den sie gleichwohl erfolglos führen, seit ihr Land nach dem ersten Weltkrieg zerstückelt und unter den Staaten Türkei, Iran, Syrien und Irak aufgeteilt wurde.

In "Die Kurden. Volk ohne Staat" analysiert der Publizist und Nah-Ost-Experte Günther Deschner Gründe und Zusammenhänge für die Unterdrückung eines Volkes, dessen Ziel es einzig ist, sein politisches, wirtschaftliches, kulturelles und soziales Leben nach eigenen Vorstellungen zu gestalten. Herausgekommen ist dabei eine ebenso fundierte wie spannend geschriebene politisch-historische Darstellung des Kurdenproblems - unter Einbeziehung aktueller Entwicklungen im Irak-Konflikt. Nicht zuletzt setzt die vorliegende Monographie Maßstäbe für spätere Arbeiten zum Thema Kurden/Kurdistan.

Deschner versteht sich expressis verbis als Anwalt der Kurden. Seit 1972 hat er Kurdistan mehrfach bereist, den Kampf der Kurden um Unabhängigkeit hautnah mitverfolgt und Gespräche geführt mit wichtigen Kurdenführern wie dem kurdischen Mythos Mustafa Barsani, dem Chef der Patriotischen Union Kurdistan (PUK) Dschalal Talabani sowie dem gescheiterten PKK-Führer Abdullah Öczalan. Stets wurden und werden, so seine nüchterne Bilanz, die Kurden als Bauern auf dem Schachbrett der regionalen wie auch internationalen Machtpolitik hin- und hergeschoben.

Detail- und faktenreich schildert der Autor anhand einer Fülle von Beispielen, wie Verträge, die den Kurden das Recht auf Unabhängigkeit versprachen, gebrochen wurden. Dabei spannt das Buch einen weiten Bogen von der ersten Aufteilung Kurdistans zwischen Osmanen und Persern 1639 bis hin zum "Dolchstoß aus Teheran und dem zweifachen Verrat durch Amerika" 1975 und 1991.

Vor allem die neuere Geschichte der Kurden ist reich an Aufständen und Befreiungskriegen, in denen die Kurden sich gegen Umsiedlung, Assimilierung und Vernichtung wehren und für ihre geschichtliche und politische Identität kämpfen. Deschner spricht hier von einem bis in unsere Zeit in wechselnder Intensität anhaltenden Völkermord, von der Welt kaum registriert und kritisiert. Erst die Aufhebung des Ausnahmezustands Ende 2002 bedeutete für das kurdische Südostanatolien das Ende eines 15-jährigen, blutigen Bürgerkriegs. Zwar hat das türkische Parlament auf Drängen der Europäischen Union eine Reihe von Reformen auch hinsichtlich der kulturellen Freiheiten der Kurden eingeleitet. Gleichwohl harren noch viele Gesetze ihrer administrativen Umsetzung.

Unterdessen rückt der Krieg im Irak den jahrzehnte währenden Kampf der Kurden um Freiheit und Unabhängigkeit in den Blickwinkel der internationalen Politik. Zwar leben die Kurden im Nordirak seit dem Golfkrieg 1991 faktisch unter einem Autonomiestatut, mit eigenem Parlament und internationalen Kontakten - fast ein eigener Staat, wie Deschner feststellt. Allerdings hängt dieser, wie sich jetzt zeigt, am seidenen Faden. Die Kurden erhoffen sich in einem neuen föderalen System eine Ausweitung ihrer Autonomiezone, nicht zuletzt als Belohnung für ihre Koalitionstreue im Kampf gegen Saddam Hussein. Es geht ihnen hierbei auch um ihr historisch angestammtes Recht auf die 3000 Jahre alte - auf Ölfeldern liegende - Stadt Kirkuk, dem "kurdischen Jerusalem", als künftige Hauptstadt Irakisch-Kurdistans. Doch auch diesmal, wie schon so oft in der Vergangenheit, fürchten die Kurden, verraten und im Stich gelassen zu werden.

Überhaupt spielt Kirkuk, von den Kurden als "das Herz Kurdistans" verehrt, eine zentrale Rolle für die weitere Entwicklung in Irakisch-Kurdistan. Kirkuk ist ein Schmelztiegel unterschiedlicher Volksgruppen. Neben den Kurden, die bereits jetzt wieder eine große Mehrheit bilden, leben hier vor allem die großen und kleinen Minderheiten der Turkmenen, der Araber und der christlichen Assyrer. Während die zentralen Positionen in der Stadt inzwischen von Kurden besetzt sind - so ist der Bürgermeister seit Juni 2003 wieder ein Kurde und die Stadtpolizei besteht zu 80 Prozent aus Kurden - nehmen die Spannungen zwischen den Volksgruppen zu, vor allem zwischen Kurden und Turkmenen. Die Turkmenen fühlen sich mittlerweile als Iraker und befürworten einen irakischen Zentralstaat. Ob und inwieweit die kurdische Wiederbesiedlung der Region unterdessen zu einer Beschneidung der Rechte von Minderheiten geführt hat, dieser Frage geht das Buch allerdings nicht nach.

Indes: Der erweiterte Autonomieanspruch der Kurden ist nicht nur den USA ein Dorn im Auge, die ob ihrer jüngst wieder bezeugten strategischen Allianz mit der Türkei für einen ungeteilten Irak eintreten, sondern weckt auch Ängste in Ankara und Damaskus. Und das zu Recht, so Deschner. Denn ein erfolgreicher Kurdenstaat im Irak würde zweifelsohne mobilisierend auf die Kurden der angrenzenden Regionen wirken. In diesem Zusammenhang verweist der Autor auf die engen Kontakte zwischen den verschiedenen Volksteilen, die bis zum Ersten Weltkrieg kaum reale Grenzen kannten. Die guten Verbindungen zwischen irakischen, türkischen und iranischen Kurden, spielen "eine das kurdische Bewusstsein stark beschleunigende Rolle". Aber auch die europäische "Diaspora" spielt eine besondere Rolle, wenn es um den schnellen Austausch von Nachrichten, Meinungen und Stimmungen via Presse, Rundfunk, Internet und bislang drei Satelliten-TV-Sender geht. Das aus der Türkei verdrängte kurdische Landproletariat finde dabei häufig erst in Deutschland, Belgien und Frankreich seine kurdische Kultur. "Die Kurden sind wohl vor der werdenden politischen zuerst eine Kulturnation", so Deschner.

Gleichwohl, so mahnt der Autor, bestehe jederzeit die Gefahr des Ausbruchs der alten "kurdischen Krankheit", der notorischen Uneinigkeit untereinander. "Die Kurdenstämme", so zitiert Deschner eine alte Chronik, "halten untereinander nicht zusammen; keiner will dem anderen gehorchen und untertan sein." Wenn es jetzt in Irakisch-Kurdistan zu Konflikten zwischen Kurden komme, so Deschner, dann gehe es dabei aber weniger um hehre politische Ziele, sondern vielmehr um Macht, Ansehen und Eitelkeit einzelner Parteifunktionäre, Stammesfürsten und Familienclans. Die beiden wichtigsten Kurdenführer des Irak indessen, Massud Barsani, der Vorsitzende der Kurdistan Democratic Party (KDP), und Dschalal Talabani, Chef der Patriotischen Union Kurdistans (PUK), sind zwar nicht "immer ein Herz und eine Seele", wie Deschner betont, doch eint sie bei aller Rivalität das zusammen ausgearbeitete Konzept zur Verteidigung der Autonomie. Sowohl die territoriale Aufteilung in PUK- und KDP-Regionen als auch die gemeinsam von beiden Parteiführern gesteuerte kurdische Regionalregierung und das Parlament in Erbil, tragen nach Deschner ebenso zum derzeit herrschenden Burgfrieden bei.

Ausführlich diskutiert der Autor die grundsätzlich unter den Kurden umstrittene Frage, inwieweit ein föderales, national begrenztes Autonomiekonzept den Menschen zwar etwas mehr Freiheit bringt, letztlich jedoch die Spaltung des kurdischen Volkes zementiert und den Traum eines kurdischen Einheitsstaates in weite Ferne rückt. Für Deschner freilich geht dieser alte, neue Traum an der politischen Realität der dem Nahen Osten immanenten nationalen, religiösen und wirtschaftlichen Spannungen völlig vorbei. Vielmehr appelliert er an die Führer und Politiker der irakischen Kurden, auf dem "gewachsenen kurdischen Potential" aufzubauen, um so zwischen Träumen und Realpolitik, zwischen Geschichte und Hoffnung, die kurdische Realität zu gestalten: Eine Realität von Freiheit und Unabhängigkeit zunächst im Irak, wegbereitend für die Kurden in der Türkei, im Iran und in Syrien.

Günther Frieß
Riegelsberg

         
       

samedi, 23 mai 2009

Obama aggrave la situation au Pakistan et en Afghanistan

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Obama aggrave la situation au Pakistan et en Afghanistan

Ex: http://contreinfo.info/

Nous nous disons mener une guerre contre les talibans. En réalité, il s’agit d’une guerre contre les Pachtounes, qui sont 40 millions, à cheval sur la frontière entre Pakistan et Afghanistan, et qui veulent retrouver à Kaboul la voix au chapitre perdue en 2001. Par une ironie de l’histoire, la stratégie du diviser pour régner de l’empire britannique, qui a présidé au tracé de la Ligne Durand, rend vaine toute logique militaire d’affrontement avec les Pachtounes en Afghanistan. C’est l’échec - prévisible - de la confrontation avec les tribus en Afghanistan qui met aujourd’hui le hinterland pachtoune du Pakistan à feu et à sang. L’occupation étrangère a pour résultat d’unifier toutes les tribus, toutes les familles, contre les envahisseurs, menaçant du même coup la cohésion du Pakistan, et renforçant les tendances les plus extrémistes. Quelle est la solution ? A l’inverse de ce que planifie Obama, c’est le départ des forces étrangères, dont la présence enflamme la région, qui est le préalable à toute amélioration de la situation. Le temps est-il venu - enfin - de comprendre que ce ne seront pas les opérations militaires de contre-insurrection et les bombardements meurtriers sur la population civile qui parviendront à promouvoir les droits de la femme à Kaboul ? Analyse de Graham E. Fuller, ancien responsable de la station Afghane de la CIA.

par Graham E. Fuller, Saudi Gazette, 10 mai 2009

Malgré tous les discours sur le « smart power », le président Obama suit au Pakistan le même chemin menant à l’échec, qui avait été balisé par George Bush. La réalité impose une révision drastique de la pensée stratégique américaine.

• La force militaire ne permettra pas de prévaloir, que ce soit en Afghanistan ou au Pakistan ; les crises ont empiré avec la présence de l’armée américaine.

• Les talibans sont constitués en grande partie de montagnards islamistes fervents et ignorants. Ce sont également tous des Pachtounes. La plupart des Pachtounes voient les talibans - que cela plaise ou non - comme le principal outil permettant la restauration du pouvoir pachtoune en Afghanistan, perdu en 2001. Les Pachtounes sont aussi l’un des peuples au monde les plus farouchement nationalistes, xénophobes et tribaux, qui ne s’unissent que contre les envahisseurs étrangers. En fin de compte, les talibans sont sans doute plus Pachtounes qu’ils ne sont islamistes.

• Croire possible de sceller de façon étanche la frontière pakistano-afghane relève du fantasme. La « ligne Durand » est une ligne arbitraire tracée par l’empire britannique au coeur des tribus pachtounes des deux côtés de la frontière. Et il y a deux fois plus de Pachtounes au Pakistan qu’il n’y en a en Afghanistan. Le combat des 13 millions de Pachtounes afghans a déjà enflammé les 28 millions de Pachtounes du Pakistan.

• L’Inde est la principale menace géopolitique pour le Pakistan, et non l’Afghanistan. Le Pakistan doit donc toujours faire de l’Afghanistan un État ami. De plus, l’Inde est décidée à prendre pied résolument en Afghanistan - dans les domaines du renseignement, de l’économie et du politique - ce qui donne des frissons à Islamabad.

• Le Pakistan ne rompra donc jamais les liens avec les Pachtounes, ni ne les abandonnera dans les deux pays, qu’il s’agisse de radicaux islamistes ou non. Le Pakistan ne pourra jamais se permettre de voir des Pachtounes hostiles à Islamabad ayant le contrôle à Kaboul, ou sur son territoire.

• Partout, l’occupation crée la haine, comme les États-Unis sont en train de l’apprendre. Pourtant, les Pachtounes sont notablement absent du mouvement jihadiste au niveau international, bien qu’ils soient nombreux à s’être rapidement alliés sur leur territoire avec Al-Qaida pour combattre l’armée américaine.

• Les États-Unis avaient toutes les raisons de frapper en représailles à la présence d’Al-Qaida en Afghanistan, après l’attentat du 11 septembre. Les talibans représentaient un cas d’école de régime brutal et incompétent. Mais les talibans ont abandonné le terrain, plutôt qu’ils n’ont perdu la guerre de 2001, afin reprendre le combat plus tard. De fait, on peut débattre pour savoir s’il aurait été possible - avec une pression exercée par le Pakistan, l’Iran, l’Arabie saoudite et la quasi-totalité des autres pays musulmans qui considèrent les talibans comme des rustres - de contraindre les talibans d’extrader Al-Qaïda sans recourir à la guerre . Ce débat est en tout cas, maintenant sans objet. Mais les conséquences de cette guerre débilitante sont funestes et elles continuent encore à se propager.

• La situation au Pakistan est passée de mauvaise à pire encore, en conséquence directe de la guerre menée par les États-Unis et qui fait rage sur la frontière afghane. La politique américaine a désormais porté la guerre d’Afghanistan au delà de la frontière avec le Pakistan, par des incursions, des assassinats et des bombardements de drones - c’est une réponse classique lors de l’échec face à une insurrection. Vous souvenez-vous de l’invasion du Cambodge, afin de sauver le Vietnam ?

• Le caractère islamique et tribal profondément enraciné du pouvoir pachtoune dans les Province de la Frontière du Nord-Ouest du Pakistan ne sera pas transformé par l’invasion ou la guerre. C’est une tâche qui requiert probablement plusieurs générations pour que commence à se transformer le caractère social et psychologique qui sont profondément ancrés dans cette région. La guerre provoque une réponse viscérale et atavique.

• Le Pakistan est de fait en train de commencer à se fissurer sous la pression incessante exercée directement par les États-Unis. Les sentiments anti-américains au Pakistan sont très virulents, renforçant le radicalisme islamique et contraignant même les non-islamistes à y adhérer.

Seul le retrait de l’Amérique et de l’OTAN sur le terrain commencera à permettre à ces émotions proche de la frénésie de s’estomper au Pakistan, et à la région de commencer à se refroidir. Le Pakistan est expérimenté en matière de gouvernance et il est très capable de faire face à ses propres islamistes et mouvements tribaux dans des circonstances normales. Jusqu’à récemment, les islamistes pakistanais avaient l’un des plus faibles taux de succès électoral dans le monde musulman.

Mais les politiques américaines ont porté le nationalisme, la xénophobie et l’islamisme à leur paroxysme. Maintenant que Washington exige que le Pakistan se charge de réparer l’échec des politiques américaines en Afghanistan, Islamabad ne parvient plus à gérer sa crise interne.

L’armée pakistanaise est plus que capable de maintenir le pouvoir de l’État contre les milices tribales et de défendre ses propres armes nucléaires. Seule une convulsion nationaliste et révolutionnaire pourrait modifier cette situation - ce dont la plupart des Pakistanais ne veulent pas. Mais Washington peut encore réussir à déstabiliser le Pakistan en poursuivant sa stratégie de ligne dure. Un nouvel épisode de régime militaire - qui n’est pas ce dont le Pakistan a besoin - sera le résultat probable, et même dans ce cas, les politiques fondamentales d’Islamabad ne changeront pas, sauf au niveau cosmétique.

En fin de compte, seuls les islamistes modérés eux-mêmes peuvent l’emporter sur les radicaux dont la principale source de légitimité provient de l’incitation à la résistance populaire contre les envahisseurs extérieurs. Malheureusement, les forces américaines et les islamistes radicaux sont maintenant proches d’un état de co-dépendance.

Il serait encourageant de voir naître une démocratie en Afghanistan. Ou d’assister à une généralisation des droits des femmes et de l’éducation - des domaines où paradoxalement l’occupation soviétique avait plutôt bien réussi. Mais ces changements ne vont pas se produire, même dans une génération, compte tenu de l’histoire de dévastation sociale et économique de ce pays depuis plus de 30 ans.

La menace d’Al-Qaida ne provient plus des grottes de la frontière, mais de ce qu’elle symbolise, et a depuis longtemps diffusé ses métastases à d’autres activistes du monde musulman. Les Pachtounes se battent pour obtenir une plus grande participation au pouvoir en Afghanistan. Mais peu de Pachtounes des deux côtés de la frontière se placeront longtemps dans une perspective radicale de jihadisme international, une fois disparue l’incitation qui naît de la présence américaine. Personne de part et d’autre de la frontière, ne le souhaite réellement.

Ce qui peut être fait doit être en harmonie avec la culture politique. Il faut laisser les non-militaires et les organisations internationales neutres, libre de préoccupations géopolitiques, prendre en charge la guérison des plaies afghanes et la construction des structures de l’État. Si les huit dernières années avaient apporté des succès, peut-être une pourrait-on adhérer aux politiques menées par les États-Unis. Mais la situation sur le terrain ne montre qu’une détérioration continuelle, rendant l’issue de plus en sombre. Allons-nous renforcer encore cette même politique ? Ou les États-Unis vont-ils reconnaître que la présence américaine est devenue plus un problème que la solution ? Ce débat n’est pas encore ouvert.


Publication originale Saudi Gazette, traduction Contre Info

jeudi, 21 mai 2009

Encerclement de l'Iran (6/6) + Bibliographie

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L’encerclement de l’Iran à la lumière de l’histoire du “Grand Moyen-Orient” (6/6)

par Robert STEUCKERS

L’Iran d’hier et d’aujourd’hui: un obstacle à l’émergence d’un “Grand Moyen Orient” sous domination américaine

Ces réflexions, issues des mémoires de Houchang Nahavandi, nous permettent, enfin, d’énoncer notre deuxième batterie de conclusions.

◊ L’encerclement de l’Iran a pour objectif d’éliminer le dernier obstacle sur la voie de la constitution du marché commun du “Grand Moyen-Orient”. L’Iran en est en même temps la pièce centrale, le centre territorial d’une périphérie qui, au cours de l’histoire, a été plus ou moins influencée par la “civilisation iranienne”. On parle aussi de “Nouvel Orient énergétique” dans la littérature géopolitique et géo-économique actuelle. Avec, en plus, la Corne de l’Afrique (Somalie, Ethiopie, Kenya), cette région correspond à l’USCENTCOM, soit le Commandement américain du “Centre” de la masse continentale eurasiatique, entre le territoire où s’exerce l’USEUCOM, Commandement américain en Europe et en Afrique, et celui de l’USPACOM, le Commandement américain du Pacifique, qui s’étend de l’Inde à la Nouvelle Zélande et de l’Australie au Japon. Dans le Vieux Monde, le “Grand Moyen-Orient” ou “Nouvel Orient énergétique” constitue bien le centre géographique et géostratégique du grand continent “eurafricasien”, dont l’Iran est l’une des pièces maîtresses, constituant de la sorte un espace charnière. La création d’un marché commun dans cette zone, qui servira essentiellement de débouché pour l’industrie américaine en perte de vitesse, qui en fera un nouvel espace de chasse jalousement gardé et en excluera impitoyablement tous autres partenaires, y compris les “alliés” européens, japonais ou indiens. Cette exclusion de tous se devine déjà clairement quand on voit le sort qui a été fait aux deux projets successifs de diversification, émis par les deux Shahs de la dynastie Pahlavi, et elle se constate quand on voit avec quelle célérité les firmes européennes ont été évincées de tous les marchés de reconstruction de l’Irak.

Les bases américaines de l’USCENTCOM encerclent donc l’Iran aujourd’hui et préparent sinon son invasion, du moins son étouffement lent. Notons, à la lumière de l’histoire pluri-millénaire de l’Iran, que l’USCENTCOM occupe précisément tous les territoires dont les empires perses successifs ou les empires non perses maîtres de l’Iran, avant ou après l’Islam ont eu besoin afin de s’assurer un équilibre stratégique ou des frontières “membrées” (pour reprendre la terminologie de Vauban et Richelieu): 1) la Transoxiane, qui correspond à l’Ouzbékistan actuel (avec toutefois un ressac récent, encaissé par les Américains: l’expulsion de la base de l’USCENTCOM en Ouzbékistan à la suite d’une campagne de dénigrement contre le président et le pouvoir ouzbeks, orchestrée par les grandes agences d’Outre-Atlantique); 2) l’Afghanistan, prolongement pré-himalayen et iranophone des empires du plateau iranien, auquel l’Iran récent n’a jamais renoncé (le dernier Shah le souligne, de manière évidente et en caractères gras, dans sa “réponse à l’histoire”, réf. infra); 3) les Américains campent également en Irak, soit dans cette Mésopotamie dont le contrôle a fait la puissance de tous les empires perses et qui était l’enjeu du conflit entre Rome et les Parthes. Dans un tel contexte, l’Iran est condamné à un lent étouffement, à une stagnation irréversible qui génèrera des troubles intérieurs, qui seront immédiatement exploités, amplifiés et répercutés.

L’Iran: éliminé en deux temps – un projet programmé depuis longtemps

◊ L’Iran est l’objectif d’une stratégie de longue haleine, qui s’est déployée en deux temps: d’abord par l’élimination du Shah, de sa politique d’émancipation, d’industrialisation, de diversification commerciale et énergétique (déjà le nucléaire!), d’indépendance nationale et diplomatique, de rayonnement dans l’Océan Indien (jusqu’en Australie) et de sa marine de guerre (aussi modeste ait-elle été face à la colossale puissance maritime américaine). Pour éliminer cet autocrate avisé, on a monté une révolution de toute pièc, en appuyant tous les illuminés marxistes et autres et en sortant du placard un vieux leader religieux démonétisé et inculte. Pour mener à bien cette opération, on a mobilisé tout l’appareil médiatique occidental: du New York Times où Richard Falk décrivait, avec ce lyrisme coutumier des machines propagandistes américaines, l’humanisme de Khomeiny (Piccolomini et Erasme, Mélanchton et von Hutten doivent se retourner dans leurs tombes!), à un Professeur James Cockraft de la Rutgers University qui prévoyait, sous la houlette de Khomeiny, une ère de “liberté totale” et de “multipartisme”, au Sénateur démocrate Edward Kennedy (le frère de l’autre) qui décrivait le Shah comme le pire monstre ayant traîné ses godasses sur notre pauvre vieille terre; d’autres figures entrent dans la danse: le Sénateur Church mène campagne contre l’Iran. George Ball se rend à Téhéran pour exhorter tous les ennemis du Shah à le combattre. En même temps, les Etats-Unis, Israël et la Grande-Bretagne refusent de vendre des matériels anti-émeute à l’Iran, condamnant les forces de police impériales à l’impuissance. Les ondes sont mobilisées: la Voix de l’Amérique, la Voix d’Israël et surtout la BBC se mettent au service de l’opposition au Shah: ce sont ces radios-là qui assurent la logistique des émeutiers en transmettant les ordres des opposants et des mollahs, en donnant heures et lieux des manifestations contre le régime et pour Khomeiny. Le Général Huyser, commandant en chef adjoint des forces de l’OTAN, est envoyé en Iran pour une mission d’urgence: demander au Shah de déguerpir et neutraliser l’armée iranienne. Une fois le monarque parti sous la pression de Huyser, les officiels américains Richard Holbrooke, Leslie Gelb et Anthony Lake rédigent un rapport, dans lequel il est écrit: “Nous avons acquis la certitude que le système de gouvernement théocratique adopté par Khomeiny était de bonne augure pour les intérêts américains” (cité par H. Nahavandi, pp. 199-200).

L’objectif des Américains, en installant une théocratie qu’ils ne prenaient pas au sérieux, était de freiner et d’arrêter le programme militaire autonome de l’Iran, afin que celui-ci ne devienne pas une puissance régionale sur le “rimland” de l’Océan Indien, dans une région qui avait été impériale dans l’antiquité et était de toute évidence prédéstinée à jouer ce rôle, et dont l’influence s’était étendue sur la frange méridionale de la “Terre du Milieu”, décrite par MacKinder dans ses traités de géopolitique. Mieux: l’Iran avait toujours reçu des impulsions constructives de cette périphérie centre-asiatique conquise dès la proto-histoire par les peuples cavaliers indo-européens, dont les cosaques des tsars pouvaient se poser comme les héritiers légitimes. Si l’Iran du Shah Mohammad Reza Pahlavi se dotait d’une armée, qui deviendrait ipso facto la sixième du monde, l’impérialité persane antique pouvait ressusciter et s’allier au plus offrant. Le risque était énorme. Il fallait l’éliminer. Houchang Nahavandi rappelle que l’armée a tenté d’ailleurs de s’opposer à la prise du pouvoir par les théocrates islamistes, y compris une partie du clergé chiite, dont l’Hodjatoleslam Béhbahani, qui arrangua les 300.000 manifestants du 25 janvier 1979, accourus pour témoigner leur solidarité avec l’empereur. Béhbahani sera assassiné quelques jours plus tard. En effet, tout le clergé chiite, exposant d’une religiosité islamo-persane de grande profondeur mystique et historique, n’a pas suivi la révolution islamiste: l’Ayatollah Sayed Kazem Shariat-Madari appelle le Shah et l’armée à la fermeté. Sa position dans la hiérarchie chiite est si élevée qu’il ne sera pas assassiné tout de suite. Il sera arrêté en 1982, torturé, exhibé à la télévision. Il mourra en 1986 sans jamais avoir pu se faire soigner par un médecin de son choix.

Les figures étranges du premier “Conseil de la Révolution islamique”

Houchang Nahavandi note que dans le premier “Conseil de la Révolution Islamique” figurait Mustafa Tchamran, qui possédait la double nationalité, américaine et iranienne, qui fondera les services secrets de la république islamique, puis exercera les fonctions de ministre de la défense. Autant de positions clefs! Il sera assassiné ultérieurement par, dit-on, des “agents contre-révolutionnaires” ou des inconnus posés comme “agents irakiens”. Les auteurs de l’assassinat n’ont jamais été retrouvés. Un hasard? Mieux: Ibrahim Yazdi est aussi un Américano-Iranien. Il devient vice-premier ministre, puis ministre des affaires étrangères du cabinet Bazargan. C’est lui qui présidera les tribunaux révolutionnaires, sera responsable de l’élimination des militaires (généraux Rahimi, à qui il fit couper une main avant son exécution, Pakravan, Moghadam, Khosrodad, Nassiri et Nadji) et de son prédécesseur Abbas Khalatbari, ministre des affaires étrangères des cabinets Hoveyda et Amouzegar. Ce personnage est toujours en vie. Il a éliminé des témoins gênants. Mieux encore: Houchang Nahavandi rappelle que les membres effectifs des conseils secrets ne sont pas connus: parmi eux, combien d’Américano-Iraniens? Autre fait troublant: le nombre ahurissant de ces membres du premier conseil qui ont été assassinés, sans que l’on ne découvre jamais les auteurs de ces éliminations, tous supposés “contre-révolutionnaires”. Houchang Nahavandi rappelle aussi que “plus de 1200 officiers et sous-officiers ont été mis à mort par les révolutionnaires, souvent sans même une parodie de justice (…). 400 autres, presque tous de l’armée de l’air, ont été massacrés deux ans plus tard après la découverte d’un projet de coup d’Etat; dont 128 pilotes brevetés au cours des quarante-huit heures qui ont suivi cette découverte. L’une des plus puissantes et plus performantes aviations militaires du monde fut ainsi réduite à presque rien. Huit mille autres officiers et sous-officiers ont été rayés des cadres sans aucune indemnité”.

Un procédé avéré depuis la révolution française

◊ La deuxième étape de l’élimination de l’Iran se déroule selon un procédé avéré depuis la révolution française. L’historien Olivier Blanc nous a rappelé, dans Les hommes de Londres. Histoire secrète de la Terreur (Albin Michel, 1989), que les services secrets britanniques de Pitt, avaient fomenté des dissensions à l’infini en France, soutenant tout à la fois des royalistes et des républicains extrémistes, afin que règne le chaos dans un pays qui devait être complètement désorganisé, afin de devenir totalement impuissant et surtout de ne plus avoir assez de fonds pour bâtir une flotte et dominer les mers. D’autres diront que les révolutions russes de 1905 et de 1917 ont des origines similaires. Si le pays, visé par une telle stratégie, se rétablit, on participera à toutes les coalitions contre lui. La révolution iranienne entre parfaitement dans ce schéma, correspond à ce “modus operandi”. Le rétablissement d’un nouvel ordre politique, à références “révolutionnaires” permet alors de démoniser le pays: ce fut le cas de la France révolutionnaire et napoléonienne; ce fut le cas de la révolution mexicaine de Pancho Villa (d’abord décrit comme un “sauveur” puis comme un “monstre”); ce fut le cas de la révolution bolchevique. L’Iran n’échappe pas à la règle. Mais l’illégitimité du nouveau pouvoir, républicain en France, bolchevique en Russie, islamiste en Iran, ne lui procure pas la stabilité voulue: il existe des leviers, par le biais de contre-révolutionnaires et de mécontents, pour disloquer sa cohésion, pour entretenir le dissensus, pour le miner de l’intérieur; on peut lui appliquer les techniques du boycott, du blocus ou de l’embargo. On met des bâtons dans les roues de sa diplomatie, on le dénigre dans les chancelleries. Les machines médiatico-propagandistes peuvent dès lors fonctionner à fond et entretenir systématiquement une attitude de réprobation à l’endroit du pays visé. Personne ne se dresse pour le défendre, sans éveiller des méfiances rédhibitoires. Parce que beaucoup de situations de fait inacceptables, beaucoup de faits accomplis relevant de l’arbitraire, beaucoup de déclarations et de proclamations insoutenables, empêchent de le défendre intelligemment.

Tel est le sort de l’Iran, aujourd’hui, au beau milieu du territoire dévolu à l’USCENTCOM. Après la conquête américaine de l’Afghanistan et de l’Irak, l’Iran sait qu’il doit se doter de l’arme nucléaire pour éviter le même sort, bien que l’immensité de son territoire et les effectifs limités de l’US Army le met à l’abri d’une occupation similaire. Les Etats-Unis ne disposent pas vraiment d’alliés dans la région, prêts à s’embarquer dans l’aventure et qui demanderaient des compensations que Washington ne peut offrir, car les Etats-Unis veulent conserver tous les avantages du pays envoyé au tapis pour eux, comme en Irak. Le risque que court l’Iran est d’être étouffé par des blocus et des embargos, tout en subissant des bombardements au départ des bases de l’USCENTCOM. Ces bombardements et ces blocus viseraient à meurtrir profondément la population civile dans sa vie quotidienne, à susciter chez elle une lassitude face au pouvoir islamiste, à provoquer à moyen ou long terme une révolution intérieure, où des éléments disparates —anciens communistes, partisans nostalgiques des Pahlavi, démocrates occidentalistes, minorités ethniques sunnites— entreraient en rébellion ouverte contre le pouvoir islamiste-chiite de Téhéran et d’Ahmadinedjad.

L’Europe ne peut accepter une élimination de l’Iran en tant que nation indépendante

Malgré la réprobation que peut susciter la révolution islamiste, surtout du fait qu’elle a été une fabrication américaine, l’Europe ne peut toutefois accepter une élimination de l’Iran en tant que nation indépendante, autorisée à déterminer sa politique étrangère et son commerce extérieur. Quel qu’en soit le régime. L’Iran est un débouché pour l’Europe et un fournisseur éventuel de pétrole. Il aurait donc mieux valu conserver les relations économiques qui existaient du temps du Shah. Et conserver le maximum de relations commerciales avec le pouvoir islamiste, de façon à occuper le terrain avant tous nos concurrents. L’Europe ne doit pas agir sous la dictée des médias, en apprence indépendants, mais qui obéissent aux injonctions d’une politique étrangère toujours programmée de longue date. Au contraire, Armin Mohler nous enseignait de prendre toujours le contre-pied des programmes d’action induits par la propagande médiatique américaine. Si les Etats-Unis décrètent tel ou tel pays “infréquentable”, ce doit être une raison supplémentaire pour le fréquenter et entretenir avec lui de bonnes relations. Si une telle politique, qualifiable de gaullienne et, mieux, de “mohlerienne”, avait été suivie en 1978-79, le Shah serait resté en place: la sidérurgie européenne en aurait tiré profit et n’aurait pas connu la banqueroute; nous y aurions vendu des armes et des équipements civils, des avions et des navires. Nous aurions pu en investir les bénéfices dans de nouvelles technologies. Nous venons de perdre l’Irak, où les firmes françaises, allemandes et russes ont été exclues du marché, de même que l’agro-alimentaire danois, malgré l’alignement de Copenhague sur la politique de Washington; la cabale des caricatures de Mahomet, bien orchestrée via tous les médias du globe, a exclu l’agro-alimentaire danois, très performant, de tout le futur “Grand Moyen-Orient”. Nous ne pouvons donc pas nous permettre de perdre l’Iran de la même façon. Ce serait nous couper pour longtemps d’une région importante du monde et ce serait un ressac terrible pour notre économie.

Il reste à espérer que Moscou et Beijing s’opposeront à toute intervention américaine en Iran. Il n’y a rien à attendre de l’Europe d’aujourd’hui. L’axe Paris-Berlin-Moscou n’a été qu’un espoir. Nos dirigeants n’ont pas été à la hauteur de ce projet, mais il fallait s’y attendre. Cependant, pour ceux qui ont encore la volonté et l’honneur de s’insérer dans la continuité de l’histoire européenne, l’Iran demeure l’espace du premier empire de facture indo-européenne, un espace qui a amené les langues et la culture européennes jusqu’à l’Indus et au Gange, et, si l’on tient compte des peuples de cavaliers proto-iraniens, jusqu’au Tarim et sans doute jusqu’au Pacifique voire jusqu’au Japon. De l’Ecosse au Bengale. Des Pyrénées au Pacifique. Une mémoire qui oblige. Devrait obliger. Que nous voulons honorer. L’unité stratégique de cet espace nous donnerait à tous la puissance, nous redonnerait les rênes du monde.

Robert STEUCKERS,
Forest-Flotzenberg / Nancy, novembre 2005.

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Ouvrage paru après la première composition de cet article:

- Jean-Paul ROUX, Histoire de l’Iran et des Iraniens. Des origines à nos jours, Fayard, Paris, 2006.

 

mercredi, 20 mai 2009

Encerclement de l'Iran (5/6)

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L’encerclement de l’Iran à la lumière de l’histoire du “Grand Moyen-Orient” (5/6)

par Robert STEUCKERS

Matrices territoriales afro-asiatique, élamo-dravidienne et indo-européenne: la conclusion de Colin McEvedy

La matrice indo-européenne procède d’une “Urheimat” de départ beaucoup plus vaste que celles, réduites, que l’on avait imaginées jusqu’ici. Toujours selon Colin McEvedy, il ne faut pas réduire la matrice territoriale indo-européenne (ni l’afro-asiatique ni l’élamo-dravidienne) à une zone trop restreinte, réduite à un petit espace géographique confiné, mais l’étendre à un espace assez vaste, car la mobilité proto-historique a été une réalité trop peu prise en compte jusqu’ici: les Afro-Asiatiques s’étendaient de l’Atlantique marocain actuel à l’ensemble de la péninsule arabique; les Indo-Européens —et McEvedy rejoint en cela l’archéologue allemand Lothar Kilian— de la Mer du Nord (Norvège, Danemark, Pays-Bas) au delta de la Volga dans la Caspienne; la matrice élamo-dravidienne, quant à elle, s’étendait des côtes actuellement iraniennes du Golfe jusqu’au sous-contient indien. Pour McEvedy, seules les matrices ouest-méditerranéennes et caucasiennes de la proto-histoire disposaient d’un territoire plus réduit: péninsule ibérique, bassin de la Garonne, côtes et arrière-pays de Provence, Etrurie-Toscane pour la première; Caucase et Nord-Est de la Turquie actuelle, pour la seconde. Colin McEvedy: “Quelques [archéologues] ont suggéré que le “homeland” original des Indo-Européens correspondait à une zone [allant de la Mer du Nord au Turkestan]. Cette idée est étayée par le fait qu’il n’y a aucun nom de rivière autre qu’indo-européen au sein de ce territoire. Pour le lien récemment démontré entre Elamites et Dravidiens, nous concluons désormais que la Heimat originelle de ce groupe nouvellement baptisé élamo-dravidien a au moins 3000 km de longueur. Nous savons déjà que le groupe afro-asiatique s’étendait sur un espace de 5000 km de longueur d’Est en Ouest. Il semble donc extrêmement improbable qu’un groupe aussi efficace que l’ont été par la suite les Indo-Européens, ait disposé d’un territoire plus réduit que les Afro-Asiatiques et les Elamo-Dravidiens”.

Le territoire d’origine des peuples européens correspond donc plus ou moins à l’espace européen actuel, Russie comprise. L’Iran traditionnel, de Zarathoustra au dernier Shah, se perçoit comme une émanation de cette matrice européenne, comme le produit d’une irruption constructive, bâtisseuse d’empires, dans les espaces élamo-dravidien et sémitique, amorcée vers -1800. Si au départ, cette vision avait une connotation raciale évidente, le brassage continu des peuples dans cette zone a, par la force des choses, fait disparaître le caractère purement racialiste de cet idéal d’irano-européité, pour faire place à la notion intégrante et impériale de “civilisation iranienne”, défendue par Reza Khan Pahlavi, et, dans une moindre mesure, par son fils (qui, pour éviter affrontements et dissensions intérieures, devait composer avec l’islam, qui ne lui a pourtant manifesté aucune gratitude).

La “civilisation iranienne”, pour le dernier des Pahlavi, était le patrimoine iranien, qu’il convenait de réhabiliter contre l’ignorance dans laquelle était plongé le peuple d’Iran, faute d’écoles et d’instituteurs et, à ses yeux, à cause de l’islam. Pour Mohammad Reza Pahlavi, il fallait réactiver les forces du passé iranien en multipliant bibliothèques, instituts, universités, initiatives culturelles. Dans son mémoire en défense, face à l’histoire future et face à l’échéance fort brève que lui laissait la maladie qui le rongeait, il a écrit ces paroles pertinentes: “Cette conception selon laquelle tout ce qui appartient au passé est réactionnaire, antiprogressiste ou dépassé, fort répandue dans une certaine bourgeoisie citadine, avait porté à dénigrer la culture proprement iranienne, à négliger les oeuvres d’art léguées par le passé”. Les nouveaux programmes scolaires, déjà imaginés par son père, devaient remédier à cette déliquescence, fruit funeste de l’urbanisation; par ailleurs, des programmes de télévision et de radio-diffusion étaient appelés à faire revivre, avec succès, l’ancienne musique persane, qui, sinon, serait tombée aux oubliettes. Ce recours aux valeurs sûres du passé, aux archétypes, consolidateurs de toute durée historique et de toute continuité impériale, voulu par Reza Khan et son fils, était pourtant contemporain, dans les années 60 et 70, d’un futurisme culturel, porté par des avant-gardes audacieuses, souvent patronnées par la troisième épouse de Mohammad Reza Shah, la Shabanou Farah Diba.

Révolution Blanche, Démocratie impériale et Grande Civilisation

La référence à la “civilisation iranienne”, chez le dernier Shah, qui cite en ce sens l’iranologue français du 19ième siècle, Gobineau, devait être le prélude à un vaste projet géopolitique, baptisé “Grande Civilisation” et soutenu, en Iran, par la “révolution blanche” et le système dit de la “démocratie impériale”. D’inspiration clairement zoroastrienne et sur le modèle de l’empire de Cyrus, cette marche en direction de la “Grande Civilisation” devait mener l’Iran vers une révolution “anamorphique”, où il aurait été tiré vers le haut par la volonté impériale. L’Iran aurait alors été le modèle à suivre pour ses voisins. Cette révolution intérieure impliquait de poursuivre, en politique extérieure, le projet constructif de susciter et de consolider une vaste solidarité de tous les riverains du Golfe Persique et de l’Océan Indien. Le Shah prévoyait de bonnes relations avec l’URSS et les pays européens du COMECON (dont la Roumanie). Sa diplomatie a indubitablement connu de beaux succès et, notamment, a conduit à la paix avec l’Irak en 1975, grâce au règlement du trafic fluvial et maritime dans le Chatt-el-Arab’ mis au point par le Traité d’Alger; a apporté, avant l’entrée des troupes soviétiques dans le pays, une aide à l’Afghanistan isolé et enclavé (un type d’ingérence iranienne dont ne veulent pas les puissances anglo-saxonnes, comme en 1837 et en 1857); a forgé une alliance tacite avec le Pakistan (mais sans braquer l’Inde); a formulé le projet d’une politique commune avec Singapour et l’Australie pour amener la paix dans tout l’espace de l’Océan Indien (suscitant du même coup des lézardes dans le camp anglo-saxon, dont l’Australie est une pièce maîtresse, mais qui ruait dans les brancards à l’époque, allant jusqu’à doter son aviation de Mirages français).

En déployant cette diplomatie originale et de grande envergure, le Shah profitait de la nouvelle doctrine nixonienne, prévoyant de laisser les alliés des Etats-Unis organiser en toute autonomie leur environnement. Mais les Démocrates challengeurs, puis vainqueurs des élections après la disgrâce de Nixon, suite au scandale du Watergate, avaient d’autres projets, prévoyant notamment la fin de ces autonomies, jugées incontrôlables à long terme, et le ré-alignement inconditionnel des alliés moyen-orientaux sur les politiques américaines, en dépit des principes pragmatiques de la Realpolitik et en dépit des alliances et des fidélités proclamées depuis quelques décennies: la chute de Nixon allait de ce fait entraîner la fin de l’autonomie iranienne dans le contexte délicat et effervescent du “Grand Moyen-Orient”, puis, par fatalité, l’érosion du pouvoir du Shah et, finalement, sa chute. L’entourage de Jimmy Carter, comme avant lui celui de John Kennedy, est hostile au Shah. Il prend un net recul par rapport à la Realpolitik du duo Nixon/Kissinger et introduit le ferment “moraliste” et “droit-de-l”hommesque” dans l’orbe de la politique internationale. Ce fut le début d’une ère de calamités, d’un véritable ressac éthique dans toute l’américanosphère occidentale sous le masque d’une sur-éthique hyper-moralisante, gonflée artificiellement et démesurément par la propagande médiatique, dont on mesure bien les conséquences aujourd’hui, surtout après qu’une nouvelle génération de Républicains, juste avant Reagan puis dans son sillage, a, elle aussi, abandonné la Realpolitik classique pour pimenter et corser le “moralisme” cartérien de discours apocalyptiques, dérivés d’un biblisme religieux protestant et puritain (avec de nouveaux vocables propagandistes tels: “l’empire du Mal”, “l’axe du Mal”, etc.). En règle générale, avant 1978, les Républicains étaient favorables au Shah au nom d’une Realpolitik traditionnelle, qui commençait toutefois à s’éroder; les Démocrates, héritiers de l’idéologie mondialiste et militante de Roosevelt, lui étaient hostiles, à l’exception de Lyndon Johnson.

Cette mutation funeste dans la politique de Washington à l’endroit du régime du Shah, nous induit à développer quelques préliminaires, pour bien saisir notre deuxième batterie de conclusions, celles qui portent, non pas sur l’histoire pluri-millénaire de l’Iran, dont la connaissance reste toutefois un impératif de la raison politique, non pas davantage sur le rôle des facteurs déjà évoqués, qui sont de nature idéologique, religieuse ou ethnique, mais sur la situation géopolitique et géostratégique actuelle, où l’Iran est bel et bien encerclé, pris en tenaille dans un réseau dense de bases américaines, installées en Transoxiane (Ouzbékistan), en Afghanistan et en Irak. C’est-à-dire dans tous les espaces stratégiques, dans tous les glacis ou zones de réserve, qui ont permis à l’Iran, à un moment ou à un autre de son histoire, de rayonner sur son environnement, de consolider les assises de la “civilisation iranienne”, de s’étendre et de survivre.

Washington contre Téhéran

Houchang Nahavandi, dans le chapitre (XI) à nos yeux le plus important de son livre sur la “révolution iranienne”, et qui s’intitule précisément “Washington contre Téhéran”, récapitule toutes les étapes des relations américano-iraniennes depuis 1941, année de l’invasion anglo-soviétique et de l’abdication forcée de Reza Shah. Pour l’Iran, la Grande-Bretagne et la Russie étaient les deux puissances ennemies par excellence, celles qui menaçaient l’intégrité territoriale iranienne. L’ennemi principal était britannique, car il colonisait toute l’exploitation des pétroles d’Iran, par le biais de l’”Anglo-Persian Oil Company”, puis de l’”Anglo-Iranian Oil Company”, et visait une satellisation du pays, permettant d’installer une continuité territoriale sans aucune interruption entre les possessions ou protectorats britanniques situés, d’une part, entre l’Afrique du Sud et l’Egypte, et, d’autre part, entre la frontière égypto-libyenne et la Birmanie.

Après 1918, Londres n’avait plus réellement les moyens de réaliser une politique aussi grandiose, rêve de Cecil Rhodes: l’hypertrophie impériale dans la zone de l’Océan Indien était devenue une réalité fort préoccupante, jetait les derniers feux d’une démesure sans solution donc générait une frustration qu’on ne voulait pas avouer. Reza Khan, devenu Reza Shah en 1926, était, par sa personne et par sa forte volonté de colonel cosaque, un obstacle de taille au projet jadis rêvé par Rhodes. Reza Shah composait avec les Soviétiques, car il était plus russophile qu’anglophile comme nous venons de le voir, mais ne contestait pas encore fondamentalement le monopole anglais sur les pétroles iraniens. Il entendait toutefois diversifier ses relations avec les pays occidentaux industrialisés et avec le Japon: des milliers d’ingénieurs allemands et italiens travaillaient en Iran et les relations commerciales germano-iraniennes étaient fort avantageuses pour Téhéran. Des consortiums scandinaves avaient réalisé la prouesse technique d’achever en onze ans de travaux titanesques le tracé de la voie ferroviaire transiranienne entre le Golfe et la Mer Caspienne, avec des ouvrages d’art stupéfiants, dans des territoires montagneux quasiment vierges. L’Allemagne livre les locomotives. L’Italie et le Japon avaient livré à la marine iranienne naissante des bâtiments de guerre destinés à contrôler les eaux du Golfe. Les officiers de la marine avaient été formés en Italie. Quand les troupes allemandes et leurs alliés envahissent l’URSS en juin 1941 et bousculent les armées soviétiques massées le long de la ligne de démarcation de septembre 1939, l’URSS devient ipso facto l’alliée de la Grande-Bretagne. Les deux puissances décident d’occuper l’Iran neutre, de façon à pouvoir approvisionner l’URSS par la Caspienne et l’axe fluvial de la Volga. L’armée de Reza Shah résiste, les villes iraniennes sont bombardées, la marine iranienne est anéantie dans le Golfe et y perd quasiment tous ses officiers. La garnison de Kermanshah bloque provisoirement l’avance britannique, mais le rapport des forces est évidemment au détriment de l’Iran: le 27 août, le Shah est contraint de demander la cessation des hostilités. En septembre 1941, il abdique en faveur de son fils Mohammad Reza. Il est emmené en captivité en Afrique du Sud où il meurt en 1944 d’un cancer que l’on n’a sans doute pas voulu soigner convenablement.

Les Etats-Unis en Iran pendant la deuxième guerre mondiale

Les Etats-Unis, qui n’entrent en guerre qu’en décembre 1941, ne sont, aux yeux des Iraniens, qu’un troisième comparse, débarqué plus tard, ne sont pas les envahisseurs directs, mais une puissance qui arrive dans la guerre, après la violation délibérée de la neutralité du pays et après les opérations militaires qui ont frappé durement les civils des villes, l’armée iranienne et sa marine. L’Amérique n’est donc pas perçue en Iran, pendant la seconde guerre mondiale, comme une puissance occupante. Elle n’est pas présente visiblement par des déploiements de troupes et des patrouilles; seuls des ingénieurs civils organisent voies ferroviaires et installations portuaires. Pour Nahavandi, les relations cordiales entre l’Iran et les Etats-Unis commencent surtout au lendemain de la deuxième guerre mondiale, quand les Soviétiques refusent d’évacuer le nord du pays et les régions azerbaïdjanaises, qu’ils avaient occupées et où ils avaient organisé un mouvement séparatiste, appelé, à un stade ultérieur, à proclamer l’union de la nouvelle république séparée avec l’URSS. Truman menace Staline, qui cède, et l’intégrité du territoire iranien est ainsi sauvegardée. Ce coup d’éclat scelle l’amitié irano-américaine que le Shah n’oubliera jamais, vouant à Washington une fidélité honnête et dépourvue d’arrière-pensées, qui se révèlera, in fine, pure naïveté. Et le conduira à sa perte.

En 1953, les Etats-Unis, foulant aux pieds cette amitié que leur voue sincèrement le jeune Shah, soutiennent d’abord le nationaliste Mossadegh, en voyant d’un bon oeil la fin du monopole britannique sur les pétroles d’Iran, que Téhéran entend nationaliser. Mais quand Mossadegh doit s’allier au “Toudeh” communiste pour consolider sa majorité en faveur des nationalisations, la CIA change d’avis, par crainte d’une absorption soviétique de l’Iran tout entier ou d’un alignement sur Moscou, et participe aux opérations visant le renversement du ministre nationaliste. Le Shah doit donc une nouvelle fois sa survie et son trône à l’action énergique des Américains. Les relations entre l’Iran et les Etats-Unis restent bonnes entre août 1953 (date de la chute de Mossadegh) et 1961, avec l’arrivée au pouvoir de l’Administration Kennedy. Celle-ci veut se débarrasser du Shah et fomente un coup d’Etat des services secrets iraniens, la fameuse SAVAK. La tentative se solde par un échec. L’assassinat de Kennedy met fin à cette nouvelle politique de volte-face. Lyndon Johnson reconduit l’alliance entre Washington et le Shah.

“Révolution blanche” et diversification

A partir de 1965, les Etats-Unis chercheront toutefois à forcer un changement en Iran. L’année 1965 est marquée par le conflit entre l’Inde et le Pakistan. Lié au Pakistan par le pacte militaire pro-occidental du CENTO, l’Iran soutient son allié, par l’effet du lien contractuel inhérent au traité mais aussi par solidarité musulmane et parce que l’Inde, qui décroche finalement la victoire, recevait le soutien de l’URSS. Malgré cette fidélité aux alliances pro-américaines, trois facteurs contribuaient à brouiller, simultanément et en coulisses, les rapports irano-américains.

- D’abord, les effets de la “révolution blanche”, commencée en 1961, avec partage des terres de la Couronne et des latifundia entre les paysans, l’alphabétisation et l’émancipation des femmes. Ces démarches, nécessaires à l’avancée du pays, provoquent une forte résistance de la part des grands propriétaires terriens, des chefs de tribus et du clergé chiite. En octobre 1963, à la suite de désordres semés par Khomeiny, celui-ci est banni d’Iran. Washington craignait que la “révolution blanche” ne génère une déstabilisation du pays et ne provoque un effet de contagion dans d’autres Etats alliés, y compris en Amérique latine. La leçon à tirer de ces événements, c’est que les Etats-Unis ne tolèrent aucune réforme sociale en profondeur, qu’elle soit portée par une idéologie marxiste-léniniste ou par des mesures pratiques et non idéologiques, parfois autocratiques, comme dans l’Argentine de Péron ou l’Iran du Shah ou la France de De Gaulle hier, ou dans le Vénézuela de Chavez aujourd’hui. Pour les Etats-Unis, c’est clair, les Etats alliés doivent vivoter sous des démocraties qui ne génèrent que le désordre, l’enlisement et la corruption, afin de freiner et de bloquer les initiatives originales, sans modèle préconçu tiré d’une idéologie trop souvent irréaliste, mais taillées chaque fois à la mesure du peuple auquel elles s’adressent, leur donnant véritablement à terme la liberté et l’autonomie sur le plan intérieur et sur la scène internationale.

- Ensuite, la défaite, face à l’Inde en 1965, du Pakistan, qui dépendait entièrement des Etats-Unis et de la Grande-Bretagne pour son armement, fait craindre au Shah un sort similaire pour l’Iran en cas de coup dur. L’Iran doit donc s’autonomiser et chercher à diversifier ses sources d’approvisionnement en technologies avancées, tant les militaires que les civiles. Houchang Nahavandi cite, à ce propos, un rapport de 1966 de l’ambassadeur américain à Téhéran à l’époque, Armine Mayer: “La crise de septembre 1965 entre l’Inde et le Pakistan a persuadé le Shah qu’une dépendance excessive de la défense iranienne à l’égard des Etats-Unis pourrait réserver à l’Iran le même sort que le Pakistan. Il recherche sa liberté de mouvement”. Le Shah cite de plus en plus souvent De Gaulle en exemple. Et passe à la pratique: il commande en Europe. Et signe des contrats avec l’URSS. Il vise le développement d’une industrie iranienne autonome des armements. Le Shah devient un “ennemi” potentiel: on le traite de “dangereux mégalomane” et même de “cinglé”, injures que Péron et De Gaulle avaient également essuyées. L’enseignement à tirer de cette volonté de diversification du Shah, c’est, bien sûr, que les Etats-Unis ne tolèrent aucune forme de diversification et d’autonomie. La diversification voulue par Mohammad Reza Shah avait connu une précédence: celle réalisée par son père dans les années 20 et 30, avec le concours des Scandinaves, des Allemands et des Italiens. Pire: avec l’argent du pétrole, au début des années 70, le Shah acquiert 10% du capital d’Eurodif, ce qui aurait pu permettre à l’Iran, à terme, de se doter de technologies nucléaires, tant militaires que civiles. L’hostilité à un Iran doté de technologies nucléaires ne date donc pas de ces dernières années et ne relève pas d’une inimitié viscérale à l’endroit de la seule révolution islamiste, qui serait l’expression radicale et musulmane du fameux “choc des civilisations”, théorisé dès 1993, dans les colonnes de Foreign Affairs, par Samuel Huntington.

L’OPEP, la hausse des prix du pétrole et l’émergence de l’agitation islamiste

- Enfin, la hausse des prix du pétrole, décidée par l’OPEP, avait reçu l’approbation du Shah et du roi Fayçal d’Arabie Saoudite (assassiné en 1975). Kissinger, qui, comme les autres, commence à émettre des doutes, à s’aligner sur le camp anti-iranien, finit par vouloir, lui aussi, le départ du Shah, mais ne cherche pas à brusquer les choses, car il entend agir dans le cadre d’une diplomatie traditionnelle de type bismarckien; Kissinger refuse également de mettre les ventes d’armes américaines à l’Iran en danger; il entend conserver au moins cet atout, qui permet un contrôle indirect de l’armée iranienne, à laquelle, le cas échéant, on ne livrerait pas de pièces de rechange. En même temps, Kissinger veut bloquer tout développement et toute prospérité aux firmes européennes exportatrices d’armements. Les trois principaux reproches que Kissinger adresse au Shah sont les suivants: grâce aux plus-values du pétrole, le Shah va consolider son influence régionale, exercer ipso facto des pressions sur les Etats-Unis, transformer son pays en grande puissance. C’est à ce moment-là que Washington décide de parier sur le “fanatisme islamiste” et qu’émergent dans les débats stratégiques certaines des thèses de Brzezinski: insistance sur l’importance stratégique millénaire de la “Route de la Soie” qu’aucune puissance d’Eurasie ne peut dominer entièrement, utilisation de certains réflexes religieux musulmans intégristes pour déstabiliser les Etats qui deviendraient trop puissants dans cette zone, théorisation de la stratégie “mongole” visant à créer des dynamiques destructrices qui jettent à bas les régimes qui dérangent sans les remplacer par des structures politiques cohérentes et alternatives. A ce propos Houchang Nahavandi cite le politologue libanais Nicolas Nasr: “La promotion du fanatisme islamique, inspirée par Henry Kissinger et Zbigniew Brzezinski, visant à promouvoir la naissance d’Etats confessionnels dans la région, pourrait servir hautement les intérêts américains, … la promotion des principes coraniques, en bloquant le développement et toute modernisation dans les pays musulmans, profiterait idéalement au capitalisme américain et occidental, en conférant à ces pays sous-développés le statut de simple marché de consommation des produits industriels” (p. 187). “Les Etats-Unis veulent que les contrées riches en matières premières demeurent des zones économiquement et politiquement faibles, “molles”, susceptibles de receler de nombreux consommateurs potentiels, sans pour autant être en mesure de devenir des Etats forts du point de vue politico-militaire et technologique. Ils doivent rester “dépendants” et donc demeurer des “ventres mous” (p. 188). Ces axiomes de la politique américaine ne valent pas seulement pour l’Iran.

mardi, 19 mai 2009

Encerclement de l'Iran (4/6)

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L’encerclement de l’Iran à la lumière de l’histoire du “Grand Moyen-Orient” (4/6)

Reza Khan et le pan-iranisme

Pendant la première guerre mondiale, l’Iran se déclare neutre. Sa toute petite armée, réduite à l’impuissance, était organisée par des officiers suédois, la Suède conservatrice tentant toujours de faire diversion dans le sud, de s’y donner des alliés de revers, afin de récupérer la Finlande au nord. Dès le début des hostilités, les Russes violent le territoire au Nord et les Britanniques au Sud, sous prétexte de protéger les champs pétrolifères contre toute attaque germano-turque venue de Mésopotamie. Deux expéditions allemandes, dirigées par von Niedermeyer et Wassmuss, faiblement équipées, parviennent à soulever des tribus iraniennes et afghanes contre les Britanniques ou les Russes. Ces opérations de petite envergure obligent toutefois les Britanniques à mobiliser des milliers d’hommes pour tenter de les neutraliser. Les opérations de Wassmuss lui ont valu le surnom de “Lawrence allemand”. Après la guerre et après le Traité de Versailles, qui cherche à placer l’Iran tout entier sous la domination britannique, Reza Khan, par un coup d’Etat le 21 février 1921, prend le pouvoir, dépose le dernier Shah qadjar, le faible Ahmad Mirza, et fonde la dynastie des Pahlavi. Il compose avec les Soviétiques en 1924 pour obtenir la paix sur sa frontière septentrionale et pour se ménager les Soviétiques contre les Anglais, bien plus menaçants au sud et à l’est; l’objectif britannique étant d’inclure la Perse toute entière dans leur orbite pour “créer une continuité territoriale du Caire à Calcutta”. Pour contrer l’impérialisme anglais, le nouveau pouvoir bolchevique remet toutes les dettes que l’Iran devait à la Russie tsariste. De cette façon, l’Iran, redevable de sa sécurité financière à Moscou, cesse automatiquement de devenir un tremplin éventuel pour envahir l’Asie centrale soviétique.

Le 25 avril 1926, Reza Khan se fait couronner empereur. Il veut insérer son pays dans le 20ième siècle. Admirateur d’Atatürk, il souhaite doter le pays d’un système scolaire moderne, diminuer la dépendance face à l’Angleterre, réduire le pouvoir des religieux chiites, promulguer un code civil et enlever l’exercice de la justice au clergé, ce que ce dernier n’acceptera pas et ne pardonnera jamais. Le plus intéressant dans l’ensemble de ces innovations imposées d’autorité par le nouveau Shah est sa volonté de réhabiliter le passé iranien pré-islamique. Cette réhabilitation passe par la fondation d’une académie qui épure la langue persane de ses emprunts arabes. Mais, comment, par ailleurs, va s’articuler ce “persisme”? Quels en sont les ingrédients idéologiques, les lignes de force?

Le culte de Cyrus le Grand

◊ D’abord le culte de Cyrus le Grand, fondateur de l’impérialité perse. En dépit de 27 ans de pouvoir islamiste, les pèlerinages au site de son tombeau ne cessent pas. Cyrus est l’archétype de l’identité persane mais aussi un symbole de liberté et de tolérance dans l’exercice de la puissance impériale. Cyrus a toujours été un vainqueur magnanime, une “grande âme” (“magna anima”), qui réhabilitait les vaincus, contrairement aux Assyriens qui les décapitaient ou les empalaient. Les deux shahs de la dynastie pahlavi ont tenté d’introniser ce culte de la grandeur perse antique pour évincer un islamisme qu’ils jugeaient décadent, qu’ils considéraient comme un frein au développement de l’Iran. La période d’effervescence, qui a précédé la chute du dernier shah et le retour de Khomeiny, a été marquée par cette lutte idéologique: d’une part, les forces de gauche, comme le parti Tudeh, d’obédience communiste, posaient Cyrus comme un tyran, sapant de la sorte —et de manière préventive— les assises de toute monarchie et de tout retour à celle-ci, quand bien même la monarchie aurait été stabilisatrice et progressiste (au sens technique du terme), indépendantiste (anti-britannique et anti-américaine). L’idéologie du Tudeh voulait promouvoir un “avenir radieux” (pour paraphraser Zinoviev) et ne voulait rien avoir à faire avec le passé, avec des archétypes. Les partisans islamistes de Khomeiny entendaient, eux, ignorer le passé pré-islamique de la Perse et ne valorisaient que l’enseignement des “nobles récits” des héros de la tradition musulmane chiite. Pour le clergé chiite, il est inacceptable de valoriser des événements historiques antérieurs à l’islam, puisque, par définition, toute époque pré-islamique est considérée comme “jahilliya”, soit un “âge d’ignorance”. Ce sera surtout l’ayatollah Khalkhali, —surnommé le “juge pendeur”, car il a été l’exécuteur intraitable de l’élite militaire iranienne favorable au Shah déchu,— qui tentera, mais en vain, d’éradiquer le culte de Cyrus, en réclamant, avec une véhémence tenace, la destruction de son tombeau, des ruines de Persépolis et de toutes les traces de l’impérialité persane pré-islamique (les talibans détruiront, dans un même esprit, les Bouddhas de Bamiyan en Afghanistan). Les islamistes et les partisans de cette figure originale de la révolution iranienne, Ali Shariati, voulaient valoriser la figure de l’Imam Hossein, martyr au 7ième siècle de la foi chiite parce qu’il s’était opposé à la tyrannie illégitime des Ommeyades, apparentés au Calife Othman.

Impérialité perse, zoroastrisme et culte de la Lumière aurorale

Les partisans du Shah, en revanche, se réclamaient du passé “aryen” de la Perse, se démarquant du même coup de leurs voisins arabes (sémitiques) et turcs (ouralo-altaïques). Mohammad Reza Pehlavi, le dernier Shah, qui sera abandonné par ses “alliés” (?) américains, avait clairement renoué avec ce passé en faisant célébrer à grands frais, et de manière maladroite parce que trop dispendieuse, le 2500ième anniversaire de la fondation par Cyrus de l’impérialité perse. Dans ce contexte, il modifie d’autorité le calendrier musulman: l’année de la naissance de Cyrus remplaçant l’Hégire, la fuite de Mahomet de la Mecque à Médine. L’année 1976 devenant ainsi 2535, au lieu de 1355. Un idéologue paniraniste (le paniranisme veut la réunification légitime de la Perse et de l’Afghanistan), Shahrokh Meskoob, écrivait, peu après la révolution khomeyniste: “C’est surtout en deux choses que, nous, Iraniens, différons des autres musulmans: par l’histoire et par la langue. Ce sont ces deux facteurs qui nous ont induits à construire notre propre identité en tant que peuple et que nation. L’histoire a été notre valeur, elle a constitué les réserves pour nous permettre de suivre à chaque fois notre propre voie, et elle est aussi notre refuge. La langue a constitué le socle, le sol et le refuge de notre âme, un point d’appui sur lequel nous nous sommes toujours arc-boutés” (cité par Molavi, cf infra).

◊ Ensuite, la position par rapport au zoroastrisme. Si l’Iran est chiite, admettent la plupart des iranologues, c’est parce que son passé pré-islamique a été zoroastrien. Le chiisme traditionnel, du moins avant Khomeiny, gardait du zoroastrisme le culte du feu et de la lumière, notamment dans les écoles dites “illuminationistes” ou Eshraqi / Ishrâqî. Cette école date du renouveau iranien du 11ième siècle, est en cela typiquement perse, non arabe et non turque. L’idée centrale de cette “illuminationisme” perse est, in fine, un culte de la lumière, hérité du zoroastrisme, dont la manifestation tangible est une architecture religieuse et sacrée, laissant filtrer dans les mosquées ou les mausolées la lumière d’une manière particulièrement ravissante, provoquant des jeux de couleurs turquoise ou émeraude du plus bel effet. Des dieux du jour (et donc de la lumière et du soleil) indo-européens au culte de la Lumière du zoroastrisme, un filon millénaire conduit directement à ces poètes persans des 11ième et 12ième siècles, les Ishrâqîyûn ou adorateurs de l’ “illumination aurorale” ou des “princes célestes”, qui sont en fait les Intelligences illuminantes, dont les astres sont les symboles et les théurgies (oeuvres divines). A l’oeuvre, dans cet univers, un “Eros cosmogonique” porté par les “fidèles d’amour”. Dans les récits mystiques de Sohrawardi (12ième siècle), le Dieu des Dieux proclame: “Rien n’est plus vénérable pour moi que Bahman-Lumière (…) Célébrez en longues liturgies la race de Bahman-Lumière et les rois de la famille de Bahman-Lumière peuplant l’inviolable enceinte du Jabarût (soit le “monde des pures intelligences lumineuses et illuminantes, aurorales”)”. Implicitement, après le “Shahnameh” de Ferdowsi (cf. infra), Sohrawardi réclame, en utilisant le nom zorosastrien de “Bahman” (ou “Vohu Manah”), l’avènement d’un Ordre Royal de tradition persane où ceux qui sont issus de la race de Bahman-Lumière doivent s’organiser en une sodalité ésotérique, élitaire, en “templiers célestes”, sur le modèle de la chevalerie ouranienne pour répondre à l’appel de cette race et pour installer, selon son esprit, un Ordre aussi parfait que possible sur terre, brisant du même coup la solitude de l’homme égaré par ses affects et ses intérêts matériels et le sauvant de la déréliction humaine, tare constante, terrible et récurrente.

Renaissance iranienne au 11ième siècle: le “Shahnameh” de Firdowsi

◊ Dans cette renaissance iranienne du 11ième siècle, émerge également le “Livre des Rois”, le “Shahnameh”, dû à la plume du poète Ferdowsi. Ce dernier a véritablement sauvé la tradition perse de l’arabisation par l’islam. Ferdowsi n’est pas opposé à l’islam. Aucun texte de lui ne constitue une réfutation ou un rejet de l’islam. En revanche, il critique l’invasion seldjouk, danger pour l’identité perse. Ferdowsi était issu d’une famille iranienne du Nord-Est, de la région de Machhad où la mémoire des épopées persanes avait été conservée en dépit de l’islamisation. Né vers 941, il bénéficie du soutien du maître des lieux, Abou Mansour Tousi, qui gouverne le Khorassan pour le compte des Samanides de Boukhara. Afin de réhabiliter l’histoire perse, et donc la geste des rois de la “race de Bahman-Lumière”, les Samanides demandent à Ferdowsi de rédiger ce “Livre des Rois” en 957. Il reprend l’oeuvre laissée par Daqîqî, un poète perse qui avait été assassiné par un esclave turc, et inclut les 988 vers de son “Livre des Rois” dans son “Shahnameh”, auquel il travaille pendant plus de trente ans, jusqu’en 1010, avec le soutien continu des Samanides. La version définitive de cette épopée persane comptera entre 48.000 et 55.000 vers. Quand les Samanides quittent l’avant-scène politique de l’Islam et de l’Iran, Ferdowsi s’adresse à Mahmoud de Ghazni (cf supra), qu’il perçoit comme l’homme fort capable de redonner à l’Iran sa gloire et son lustre d’antan, de résister à l’arabisation et de constituer un rempart contre la menace turque-seldjouk qui pointe à la frontière. Mahmoud de Ghazni l’ignore et le méprise et Ferdowsi mourra abandonné et misérable. Les mollahs musulmans sunnites refusent qu’il soit enterré dans un cimetière religieux, sous prétexte qu’il est tout à la fois chiite et zoroastrien. Le premier Shah Pahlavi lui fera construire un mausolée en 1934, à l’occasion du millénaire de sa naissance. L’oeuvre de Ferdowsi, d’une beauté incomparable, sert de référence au paniranisme voulu par Reza Shah. Il atteste d’abord d’une continuité perse très ancienne, ensuite, d’une résistance iranienne à toutes les influences arabes et turques qui ont tenté de subjuguer le pays et d’en éradiquer la mémoire.

La poésie d’Omar Khayyam

Né vers 1045 dans le Nord-Est de l’Iran, comme Ferdowsi, Omar Khayyam est nommé astronome à la cours du grand vizir seldjouk Nizam al-Molk en 1073. Il calcule le temps avec plus de précision encore que ses homologues européens qui élaborent le nouveau calendrier grégorien. Savant versé dans toutes les disciplines de son époque, il connaît la pensée grecque et indienne, est plus que probablement influencé par une forme de soufisme qui récapitule plus ou moins secrètement, sous un masque islamique, le savoir des siècles et des millénaires antérieurs à la conversion forcée. Omar Khayyam est aussi poète: dans son “Robayyat”, il exprime, pour lui et quelques rares lecteurs initiés, une pensée peu bigote, où le scepticisme domine, assorti d’un rejet des dogmes figés, d’une ironie décapante, d’une misanthropie humoristique et d’un épicurisme affiché. Cette poésie sera redécouverte à Oxford au 19ième siècle par Edward Fitzgerald, qui avait consulté un exemplaire du “Robayyat” de 1461, conservé dans la bibliothèque de l’université britannique. La traduction de Fitzgerald fera connaître et aimer cette poésie persane à l’Europe toute entière. Au 14ième siècle, un autre poète persan, Hafez, réanime les mêmes thématiques poétiques: moqueries à l’égard des zélotes religieux, de la police de la foi. Il inspirera Goethe.

Conclusions:

◊ Notre première batterie de conclusions portera sur la nature réelle des antagonismes qui ont tissé l’histoire du “Grand Moyen-Orient”, que nous avons tenté, sommairement, d’esquisser ici. Généralement, on considère que trois sortes de facteurs sont en jeu: les facteurs religieux, les facteurs idéologiques et les facteurs ethniques. A la lumière de l’histoire iranienne, il ne semble pas que les facteurs religieux soient prépondérents. Le zoroastrisme, bien que réellement religieux et universel, c’est-à-dire transposable à d’autres peuples que les peuples aryens-iraniens, demeure constitutif de l’identité aryenne-iranienne, donc, par voie de conséquence, constitue davantage un facteur ethnique qu’un facteur proprement religieux. La volonté iranienne, surtout depuis les Séfévides, d’adopter le chiisme comme religion d’Empire, est certes un facteur religieux indéniable, mais, vu que ce chiisme est une volonté de se démarquer d’autres peuples, non indo-européens de souche, et vu qu’il véhicule sous un manteau chiite des linéaments religieux zoroastriens inspirés d’une mythologie persane indo-européenne et surtout pré-islamique, il procède forcément, lui aussi, du facteur ethnique iranien.

Les facteurs idéologiques habituels, basés sur les grands récits hégéliens et marxistes, nés en Europe et en Occident au début du 19ième siècle, n’ont guère eu d’impact dans la vaste région du “Grand Moyen-Orient” depuis l’entrée des troupes soviétiques en Afghanistan et la révolution islamiste iranienne de 1978. En effet, les idéologies, et plus particulièrement les fameux “grands récits”, définis par Jean-François Lyotard, se sont effondrés partout dans le monde, comme des châteaux de cartes, à commencer par le marxisme. Des bribes et des morceaux de ces récits ont survécu, ici ou ailleurs, mais travestis, réadaptés, relus, pimentés de mythes religieux ou nationaux (comme chez le théoricien chiite-marxisant Ali Shariati ou chez des révolutionnaires du “tiers monde”). Ces “grands récits” idéologiques ne peuvent donc pas être considérés comme des facteurs essentiels dans le “grand jeu” à l’oeuvre sur l’échiquier du “Grand Moyen-Orient”. Les acteurs locaux se mobilisent plutôt au nom de valeurs plus anciennes, plus fondamentales: celles que portent en germe les facteurs ethniques ou raciaux (n’ayons pas peur du mot). Les acteurs extérieurs, essentiellement les services américains, manipulent des conflits religieux, certes, mais qui recouvrent des antagonismes ethniques pluriséculaires. Il suffit de lire attentivement les documents anglo-saxons pour s’apercevoir que le raisonnement qui les produit n’est ni religieux ni idéologique, mais ethnique et politique. Ce qui offre une base d’action réellement concrète et laisse la manipulation vaine et illusoire de tous ces brics et brocs résiduaires des vieilles idéologies froides, artificielles et purement intellectuelles aux adversaires ou aux “alien audiences”, que sont les opinions publiques des pays alliés, qui ont pour seule tâche d’entériner, sans intervenir vraiment dans le jeu.

Facteurs raciaux: matrices turco-mongole, arabo-sémitique et indo-européenne

Lorsque l’on évoque les “facteurs ethniques ou raciaux” dans l’espace du “Grand Moyen-Orient”, il ne s’agit pas, évidemment, de définir, de retrouver ou de récréer une “race pure”, qu’elle soit iranienne, turque ou arabe. L’exercice serait vain, tant les brassages d’une histoire tumultueuse ont été fréquents et importants. De nombreux sultans d’origine turque ont adopté la vision iranienne/aryenne de l’histoire, ou plus tard, la vision russe. Lorsque nous évoquons ces “facteurs ethniques”, nous entendons de ce fait l’identification volontaire des acteurs de l’histoire ou des peuples à l’une des matrices ethniques fondamentales: la turco-mongole, l’arabo-sémitique et l’indo-européenne.

La matrice turco-mongle a son épicentre originel au nord de la Mandchourie. Les décideurs politiques qui inscrivent leurs actions dans cette tradition turco-mongole se perçoivent comme les avant-gardes d’un vaste mouvement originaire de cet épicentre, en quête de nouvelles terres à conquérir ou à annexer. Ainsi, le pantouranisme turc rêve d’un espace uni de l’Adriatique à la Muraille de Chine.

La matrice arabo-sémitique a son épicentre dans la péninsule arabique. D’après l’historien et cartographe britannique Colin McEvedy, elle procède d’un vaste conglomérat de tribus locutrices de langues “afro-asiatiques” qui s’est scindé, vers –4000, en quatre groupes, chacun disposant d’une “écosphère” propre: les Berbères du littoral nord-africain, les Egyptiens de la vallée du Nil, les Kouchites de la Corne de l’Afrique et les Arabo-Sémites de la péninsule arabique. Le nord de leur “Heimat” originelle s’est urbanisé en marge de l’Empire assyrien et a utilisé la langue araméenne. Le sud est resté isolé dans le désert arabique, devenant au fil des temps de plus en plus sec et aride. La civilisation du Yémen contient des éléments indubitablement indo-européens: architecture et alphabet. L’Islam a sorti les cultures arabo-sémitiques de leur isolement. Elles ont conquis leur environnement araméo-byzantin et perse, mais aussi égyptien et berbère. Ces peuples conquis ont résisté ou résistent toujours. On a vu comment l’esprit persan est revenu à l’avant-plan en Perse malgré l’arabisation, la turcisation et les conquêtes mongoles.

Dans les zones berbères, cette résistance existe également aujourd’hui en Algérie et au Maroc. Charles de Foucauld, récemment canonisé, était l’ami des Berbères Touaregs. Il a été assassiné par des bandes sénoussistes, oeuvrant pour le compte du Sultan d’Istanbul et de ses alliés allemands (les Sénoussistes ont effectué des raids en Egypte, au Darfour, au Tchad, en Libye et dans le désert du Sud algérien, tandis que certaines tribus montagnardes berbères de l’Atlas marocain se rebellaient, clouant au Maroc de nombreuses unités françaises). Détail piquant: les tribus sénoussistes, dont l’obédience est wahhabitique et intégriste, avaient été formées militairement par Atatürk, pour harceler les arrières italiens dans la guerre italo-turque de 1911-1912. Cette stratégie d’ “insurgency” sera reprise par Lawrence d’Arabie contre les Ottomans en Palestine et en Jordanie. Atatürk a donc armé, à son corps défendant et sur l’ordre de son état-major de l’époque, des intégristes islamistes, alors que sa vision personnelle était “indo-européenne”: il voulait identifier sa Turquie nouvelle à l’Empire hittite, indo-européen. Le monde afro-asiatique, et la matrice arabo-sémitique, ne peuvent donc être jugés comme les expressions d’un bloc uni, homogène, sauf quand il s’agit de faire face aux Perses ou à des puissances européennes plus récentes.

lundi, 18 mai 2009

Iran destaca nexos con Brasil y Latinoamérica

Irán destaca nexos con Brasil y Latinoamérica

La cancillería de Irán encomió hoy creciente nivel de las relaciones con Latinoamérica y desmintió rumores de que la cancelación de un viaje presidencial a Brasil respondiera a presiones o problemas bilaterales. En rueda de prensa ofrecida aquí, el portavoz del Ministerio iraní de Relaciones Exteriores, Hassan Qashghavi, aseguró que “el viaje (que tenía programado el mandatario Mahmoud Ahmadinejad) no fue suspendido por la parte brasileña, como se ha informado”.

Fue Irán el que anuló la visita por razones de agenda del presidente, agregó Qashghavi, al puntualizar que los vínculos con el llamado Nuevo Mundo y, particularmente con Brasilia, “son crecientes” y están en permanente expansión.

Ahmadinejad tenía previsto iniciar el 4 de mayo una gira latinoamericana que le llevaría a Brasil, Venezuela y Ecuador, países con los que la República Islámica tiene interés en impulsar la cooperación bilateral.


En declaraciones a comienzos de mes, el canciller iraní, Manouchehr Mottaki, confirmó que el jefe de estado se proponía discutir con sus homólogos las vías para desarrollar las relaciones y temas de interés.

Respecto a Venezuela, precisó Mottaki, se alentaría la “continuada cooperación y se dará seguimiento a los acuerdos, así como al establecimiento de un fondo conjunto para la cooperación y las inversiones en un tercer país con su base en Caracas”.

La visita a Brasil, puntualizaron entonces diplomáticos persas, sería la primera de gobernante iraní en 30 años, y ayudaría a fomentar nexos dinámicos y provechosos para ambas partes.

Según las mismas fuentes, la comitiva presidencial pensaba llegar a Brasilia con 110 representantes de 65 compañías nacionales de los sectores del petróleo, gas, petroquímicos, agricultura, industria alimentaria, automovilística y de construcción.

Extraído de Prensa Latina.

dimanche, 17 mai 2009

Encerclement de l'Iran (2/6)

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L’encerclement de l’Iran à la lumière de l’histoire du “Grand Moyen-Orient” (2/6)

par Robert STEUCKERS

Fin de l’unité seldjoukide et avancées européennes

L’unité seldjoukide s’effondre: trois sultanats se partagent, après les coups portés par les Croisés, l’héritage d’Alp Arslan. Mais le flot démographique turc continue à se déverser via l’Iran vers l’Anatolie et le Moyen-Orient arabe. Le Sultan seldjouk Sanjar de Merv ne parvient pas à canaliser ce flot ininterrompu qui consolide parfois les sultanats turcs établis mais y introduit tout aussi souvent le désordre: une tare du nomadisme. La Perse, dans ce contexte, est devenue le sultanat seldjouk d’Hamadan. Elle est un espace de transit pour les nomades et leurs troupeaux qui suivent leurs guerriers victorieux. Les croisades, qui ne sont pas vraiment un succès militaire sur le long terme, permettent toutefois, par la pression constante qu’elles exercent, aux royaumes ibériques de libérer une très vaste partie de la péninsule hispanique, à la Géorgie de se dégager de la tutelle seldjouk, aux Russes de Novgorod et de Souzdal de tenir tête aux Coumans, aux Byzantins de reprendre pied dans les Balkans.

L’affrontement a été lourd face aux Seldjouks. L’histoire des croisades nous montre que les Croisés “latins” et les Arméniens “grecs” feront cause commune, en dépit du contentieux entre Rome et Byzance, sanctionné par le schisme de 1054. Quand les Croisés doivent plier devant le général kurde Saladin, le conflit demeure chevaleresque, tout simplement parce que Saladin est un indo-européen, ni turc ni arabe. De là, la littérature épique et courtoise de notre moyen-âge, où Feirefiz, le chevalier perse ou kurde est l’ami de Parzifal, son homologue allemand, dans l’épopée de Wolfram von Eschenbach. Aucune fraternité de ce type n’est attestée dans la littérature épique espagnole, où Européens affrontent Berbères et Arabes, ni dans une oeuvre antérieure à l’affrontement avec les soldats de Saladin ou ceux de ces successeurs.

L’académicien René Grousset, spécialiste de l’Asie centrale, dans son livre L’épopée des Croisades, restitue clairement la situation: l’Empereur germanique Frédéric II Hohenstaufen admire, non pas tant l’islam en tant que religion, mais la science arabo-perse, capable de structurer durablement un empire. Frédéric n’a donc pas les aprioris habituels des chrétiens occidentaux contre l’islam ou les civilisations antérieures qu’il recouvre de son vernis. Les successeurs de Saladin le Kurde, eux, raisonnent en termes géopolitiques. Son empire, qui comprend alors l’Egypte, la Syrie-Palestine et la Mésopotamie, est administré par ses trois neveux, chacun sultan de l’une de ces provinces. El-Mouazzam, sultan de Syrie-Palestine à Damas, entre en conflit avec son frère aîné, El-Kâmil, sultan d’Egypte. Pour vider la querelle, El-Mouazzam fait appel à des nomades turcs commandés par Djélal ed-Dîn Mangouberdi, chassé du Khwarezm (Nord-Est de l’Iran actuel) par les Mongols de Gengis Khan. El-Kâmil voit le territoire de son Kurdistan original ravagé, l’élément perse subjugué et l’héritage de Saladin menacé jusqu’en Egypte. Il envoie un ambassadeur, l’émir Fakhr ed-Din, à Frédéric, pourtant excommunié, pour lui implorer son secours contre El-Mouazzam et Djélal ed-Dîn Mangouberdi; en échange, il lui offre Jérusalem, reprise jadis par son oncle Saladin.

Les Croisades échouent parce qu’elles n’ont pas le soutien pontifical

Les croisés du Saint-Empire romain germanique débarquent à Saint-Jean-d’Acre sous le commandement de Henri de Limbourg, qui bien vite, repousse les troupes d’El-Mouazzam et vient en aide à Hermann von Salza, grand maître de l’Ordre Teutonique en Palestine. El-Mouazzam meurt avant l’arrivée —tardive, il est vrai— de Frédéric. El-Kâmil marche sur Damas avec les troupes de son frère El-Achraf, sultan de Mésopotamie. Après moultes tergiversations, El-Kâmil et Frédéric s’entendent pour donner à Jérusalem un statut de condominium, acceptable pour les deux parties. Les Germains l’occupent et l’administrent officiellement, flanqués d’un cadi musulman, en charge de guider les pélerins vers l’enceinte du Haram ech-Chérif. C’était en 1229. Frédéric est rappelé en Italie, où les intrigues pontificales suscitent révoltes et troubles. Sa victoire diplomatique n’est pas reconnue comme telle. Triste exemple de mauvaise foi.

En 1239, les Croisés obtiennent encore une victoire, en conquérant la Galilée et Ascalon. Mais, faute de soutien pontifical, cette victoire sera de courte durée: les Turcs Khwarezmiens prennent Jérusalem en 1244, puis Tibériade et Ascalon en 1247, prouvant par là même que la volonté frédéricienne de faire barrage commun avec les Kurdes de la famille de Saladin était un projet stratégique cohérent. Les Mongols, qui suivent les Khwarezmiens, comme l’avait prévu le Sultan El-Kâmil, prennent Bagdad en 1258. Il faudra un sursaut des mamelouks d’Egypte pour mettre un terme à la présence mongole en Palestine. Pire, la lutte de la Papauté contre l’Imperium de Frédéric affaiblit l’Europe, au point qu’elle a risqué une conquête mongole en 1240-41: les hordes de Batou, prennent Kiev en 1240, envahissent la Pologne, se heurtent victorieusement à l’armée impériale à Liegnitz en 1241, mais ne poursuivent heureusement pas leur course plus loin à l’Ouest. Une autre horde longe le Danube et ravage la Hongrie. Une fois de plus, les deux attaques turco-mongoles ont été simultanées, comme au temps des Seldjouks et des Coumans, à une époque où l’Europe était affaiblie par des querelles intestines, fomentées à Rome ou à Paris. Paradoxe: le Sultan El-Kâmil était plus lucide que le Pape romain!

L’émergence de la puissance ottomane

Après les croisades, les sultanats seldjouks disparaissent. L’Anatolie est fractionnée entre des émirats antagonistes, dont les principaux sont ceux de Karaman, de Sivas et, enfin, celui des Ottomans, qui connaitra un grand destin. Les Ottomans, proches de la Mer de Marmara et de Constantinople, parviennent à prendre pied à Gallipoli en 1354. Sur la rive européenne, l’empire serbe de Stéphane (ou Etienne) Douchan, qui s’étend de Belgrade à l’Egée, se décompose en plusieurs petites entités rivales à la mort du grand roi en 1355. Les Bulgares sont également divisés en fractions rivales. Ce désordre et ces querelles fratricides permettent aux Ottomans de passer à l’attaque et d’annihiler Serbes et Bulgares. Dans les années 1360, ils se bornent à grignoter le territoire des anciens royaumes cohérents des Serbes et des Bulgares, ce qui les amènent à contrôler la Thrace. Dans les années 1370, ils établissent une frontière militaire contre les Slaves des Balkans. Dans les années 1380, ils font des Serbes et des Bulgares leurs vassaux. En 1389, le Sultan Bayazid bat les Serbes au Champs des Merles (Kosovo) et force les émirats turcomans à l’Ouest de l’Euphrate à se soumettre à son autorité. Un croisade de secours, franco-germanique, dont fait partie notre Duc Jean Sans Peur, est écrasée en Bulgarie en 1396. Bayazid Yildirim (le “Tonnerre” ou la “Foudre”) se rend maître de l’ensemble des territoires jadis byzantins sauf Contantinople et Trébizonde, devenues des enclaves urbaines isolées de leur environnement. La masse territoriale de l’Empire d’Orient devient ottomane. Les anti-unionistes orthodoxes imaginent une théologie qui puisse fusionner le christianisme grec et l’islam turc (Georgios Scholarios, dit “Gennadios”, Georgios Amoiroutzès de Trébizonde), d’autant plus qu’avant la conquête du Proche-Orient par les Ottomans, l’empire est majoritairement “grec”. Les nouveaux maîtres vont reprendre à leur compte les stratégies d’expansion des Byzantins en direction des Balkans, puis vont reconquérir le Proche-Orient, la Mésopotamie et l’Egypte (début du XVIième siècle) et se heurter aux Perses.

Mais l’oeuvre géopolitique de Bayazid Yildirim sera ruinée par un chef tatar converti à l’islam, qui n’aura détruit que des empires musulmans au cours de sa fulgurante carrière: Timour Leng ou Tamerlan, qui le bat à Ankara en 1402, donnant paradoxalement un répit à l’Europe. Prisonnier de Tamerlan, Bayazid meurt en captivité. Mais le chef tatar abandonne l’Anatolie; il a un autre projet: envahir la Chine et la détruire comme il a détruit l’Inde de Dehli. Il meurt en chemin. L’empire ottoman peut renaître et se retourner contre l’Europe: Mehmet II Fatih prend Constantinople en 1453, chasse les Génois de Crimée, vassalise les Tatars de cette presqu’île russe, devient le maître incontesté de l’espace pontique. Il ne commet pas l’erreur des Seldjouks: laisser le flot démographique turcoman d’Asie centrale se déverser sur ses possessions; il oblige les “Turcs de la Horde du Mouton Blanc” à demeurer à l’Est de l’Euphrate, ce qui lui permet de réorganiser en paix les territoires conquis sans devoir subir le désordre d’une immigration incontrôlée. Son premier objectif est de se rendre maître de toute l’Egée, d’arracher aux Vénitiens et aux Génois tous leurs comptoirs dans le bassin oriental de la Méditerranée. Lesbos tombe en 1462 et Eubée en 1470. Remarque: c’est Tamerlan qui sert de modèle à Zbigniew Brzezinski aujourd’hui car il détruit sans les reconstruire les empires du rimland eurasien. Ce principe dit “mongol” séduit Brzezinski car, s’il est appliqué à intervalles réguliers, aucune concentration de pouvoir ne peut demeurer en Eurasie sur la longue durée, en étant capable de challenger l’unique superpuissance encore en place sur cette planète.

Chevaux, chars de combat et roues à rayons

Revenons au destin de la Perse, dans la période qui va des premières croisades à l’expansion ottomane du 15ième siècle. Cette histoire est instructive pour les temps présents, où la région est à nouveau théâtre de guerres. Depuis des temps immémoriaux, des tribus indo-européennes (aryennes) erraient dans la steppe, de l’Ukraine à la Mer d’Aral. Elles avaient domestiqué le cheval. Elles étaient partiellement sédentaires (culture de Fatyanovo dans le bassin de la Volga). Elles semblent avoir commencé leurs mouvements vers l’Oural avec la culture d’Usatovo (entre –4000 et –3000). Celle-ci est suivie de la culture dite de Serednij Stog, puis par celle de Jamnaïa, qui sera la culture-source des grandes expansions indo-européennes de la proto-histoire vers l’Iran, l’Inde et probablement la Chine. Dans son grand atlas historique, le Prof. Jacques Bertin souligne l’importance de la culture d’Afanasievo (-2400 à –1700): “L’expansion indo-européenne, depuis l’Ukraine, atteint toute l’Asie centrale. La culture d’Afanasievo (…) profite de la richesse en minerais et en pâturages des montagnes de l’Altaï et des Saïan pour développer l’élevage (chevaux, bovins), l’agriculture et fabriquer des bijoux en métal (…). Une agriculture irriguée est pratiquée au sud de la steppe près de la Mer d’Aral (culture de Kelteminar) et au pied des montagnes de Turkménie”. Ensuite, ajoute-t-il, la culture de Glaskovo (-1700 à –1200) fait de “la région le lieu d’échange entre l’Ouest et la Chine”. Le déssèchement général amène des transformations, mais Bertin constate que la civilisation de Glaskovo, vers –1300 continue à “rayonner sur le Bassin de l’Amour”.

Vers –1800, ces cavaliers apparaissent en Iran et dominent les Elamites de souche dravidienne. Ils forment l’aristocratie cavalière chez des peuples dravidiens (comme les Kassites) ou caucasiens (les Hurriens organisés par les Mitanni indo-européens). Les Mitanni nous ont laissé un manuel d’entraînement de cavalerie et d’utilisation du char de combat; on a découvert ce document à Hattusas, la capitale des Hittites. Plus loin, ces mêmes tribus, qui maîtrisent la technique militaire du char et de la roue à rayons, déboulent en Chine et jettent les bases de l’organisation militaire des futurs empires chinois (période de –1600 à –1400). Vers –1275, trois branches indo-européennes orientales distinctes occupent l’espace qui va de la Mer d’Azov aux confins de la Chine et de la Mer d’Aral à la Perse à l’Ouest et à l’Inde à l’Est: les Scytho-Cimmériens, les Iraniens et les Indiens.

Zarathoustra

En -714, des troupes scythes et cimmériennes bousculent le royaume caucasien d’Ourartou, s’établissent en Anatolie, puis défont les Assyriens en –705. Le facteur indo-européen et cavalier devient décisif et incontournable au Moyen-Orient: jusqu’à l’avènement de l’Islam, plus aucun empire de facture sémitique ne s’imposera à la région. Toutes les directions politiques seront scythes, cimmériennes, mèdes, perses, grecques, macédoniennes, parthes ou romaines. Vers -560, apparaissent les Mèdes, qui soumettent Arméniens, Cimmériens d’Anatolie et Perses (une petite tribu reléguée dans le Sud peu fertile de l’Iran actuel). Pourtant ce seront les Perses, en –533, qui prendront la direction de l’ensemble, fort vaste, de l’Empire mède. C’est là que commence la véritable histoire de l’Iran.

Elle est précédé par l’apparition d’une figure prophétique, celle de Zarathustra ou Zoroastre, entre –610 et –590. Ce réformateur religieux est né en Bactrie, région centre-asiatique au nord de l’Iran actuel, où attendent, comme dans une anti-chambre, les peuples cavaliers de la steppe sibérienne pour jouer un rôle politique prépondérant dans le rimland moyen-oriental et mésopotamien, comme l’atteste l’histoire, depuis les Elamites et les Hurriens. Considéré comme un trouble-fête dans sa région natale, Zarathustra émigre par la suite dans le royaume de Chorasmie —situé au sud de la Mer d’Aral selon les uns, sur le cours moyen du fleuve Amou Daria pour les autres— où le roi Vishtapa l’accueille et accepte son code religieux, social et éthique. Les prêtres traditionnels, représentant d’une hiérarchie figée et adeptes d’une religiosité purement formelle et rituelle, organisent une révolte générale contre la nouvelle foi. Zarathoustra meurt martyr en –553. Il avait jeté les bases d’une religion de la justice, de la participation active du croyant à la chose politique, participation positive qui sera, disait-il, jugée par Dieu lors d’un Jugement Dernier. Le modèle “messianique”, plus exactement celui du “saoshyant”, du “Sauveur qui aide”, “qui vient pour aider”, est né dans cet espace scytho-iranien, entre la Mer d’Aral et la vallée de l’Amou Daria. Les Juifs, avec le prophète Daniel, le ramènent de la captivité babylonienne, après la victoire des Perses de Cyrus contre les héritiers de Nabukhodonosor. Le modèle, mutatis mutandis, sera repris par le Christ puis par deux prophètes iraniens, Mani et Mazdak, qui connaîtront également le martyr, et, enfin, mais cette fois-ci en Arabie, par Mahomet.

La fin des Séleucides et l’arrivée des Parthes

Les Achéménides (-550 à –330) acceptent le zoroastrisme dans ses grandes lignes, comme un moyen commode d’unir Perses et peuples soumis. Le zoroastrisme, devenu ainsi religion d’Empire, survit sans problème à la parenthèse des conquêtes d’Alexandre. Et se diffuse dans tout l’espace dominé par les Perses, créant une véritable diaspora, véhiculant l’esprit d’une “certaine civilisation iranienne”. Sous les Séleucides, qui prennent le relais après le partage de l’empire d’Alexandre, la Perse hellénisée connaît une longue période de déclin et perd les régions clefs de la Bactriane et de la Sogdiane au nord de l’Oxus (= Amou Daria). De nouveaux nomades indo-européens venus de Sibérie vont s’y concentrer: parmi eux, les Parthes, sous l’impulsion des Arsacides. Les Séleucides s’opposent à la progression parthe, qu’ils jugent à juste titre fort dangereuse. Ils n’y parviennent pas à cause d’un soulèvement levantin à Antioche. Les Parthes avancent jusqu’en Hyrcanie (la région qui se trouve au sud de la Caspienne). Antiochos III rétablit la situation, bat les Egyptiens, reprend la Syrie et la Palestine, s’allie avec les nomades indo-européens de Bactriane, renoue avec l’empire indien des Maurya, mais répond —décision funeste— à l’appel de Philippe V de Macédoine, qui fait face à la colère de Rome, parce qu’il avait soutenu Carthage. Antiochos III lui envoie des renforts, qui sont écrasés par les légions aux Thermopyles. Les Romains entament la poursuite, franchissent le Bosphore, écrasent l’armée séleucide en –189. Les Séleucides perdent l’Asie Mineure. La Macédoine perd son indépendance. L’Arménie se déclare indépendante.

L’empire séleucide, fort diminué, est donc coincé entre les Parthes et Rome. Il doit abandonner toute prétention sur l’Egypte, faire face à la révolte juive des Maccabées (-167 à –164), ce qui lui ôte toute possibilité d’expansion vers le Sud. Pendant qu’Antiochos IV perd ses pions en Palestine, les Parthes s’emparent de toutes les régions de l’Iran actuel et entrent en Mésopotamie. Ils y fondent une nouvelle capitale: Ctésiphon. Les Arsacides prennent le relais d’une dynastie hellénisée mais épuisée. Malgré une période romanophile au début de l’ère parthe, sous l’imperium d’Auguste, le conflit entre les deux puissances surviendra bien vite et durera, après la fin des Arsacides et l’avènement des Sassanides en +220, jusqu’à la chute de Rome au 5ième siècle, se poursuivra avec Byzance jusqu’à l’avènement de l’islam. Le principal but géopolitique de cette très longue guerre est le contrôle de l’Arménie, dont le territoire abrite la plupart des sources des grands fleuves du Croissant Fertile et dont les hautes terres permettent de surplomber militairement toute la région.

samedi, 16 mai 2009

Entrevista a Khodhayer W. H. al-Murshidy (Partido Baaz)

Entrevista al portavoz del Partido Baaz Árabe Socialista y del Frente Patriótico Nacionalista e Islámico, Khodayer W.H. Al-Murshidy

“Al Qaeda no forma de parte de la resistencia sino de la ocupación

“Al Qaeda no forma de parte de la resistencia sino de la ocupación. Al Qaeda entró en Iraq con los norteamericanos. Al Qaeda no existía antes de la ocupación. Durante el primer año el objetivo de Al Qaeda eran los propios soldados norteamericanos, posteriormente Al Qaeda deja de atacar al ejército norteamericano y se dedica a atacar a la población civil, en escuelas, mercados etc. La dirección de Al Qaeda está en manos de norteamerica, de esta forma pueden hablar los ocupantes de que vienen a defender a la población civil y que es la resistencia la que mata a los civiles iraquíes”.

Así asegura Abu Mohamed, seudónimo de Khodayer W.H. Al-Murshidy. Tiene 53 años, es médico oncólogo y profesor de la Universidad de Bagdad. Desde finales de 2006, es el representante y portavoz del Partido Baaz Árabe Socialista (PBAS) y del Frente Patriótico Nacionalista e Islámico (FPNI), conjunto de organizaciones que luchan contra la ocupación de Iraq y que engloban a la mayor parte de las organizaciones opuestas a la ocupación, desde los sectores comunistas hasta sectores confesionales moderados o la propia Alianza Patriótica Iraquí (API).Desde la ocupación de Bagdad hace ahora seis años, Abu Mohamad se ha convertido en el referente público acreditado del denominado nuevo baazismo iraquí, que con otras organizaciones promueven la reconstrucción democrática y social del país sobre bases no sectarias ni confesionales. Este sector se opone tanto a la ocupación militar estadounidense como a la actuación de Al-Qaeda en Iraq, tanto por sus métodos de terrorismo indiscriminado contra civiles y determinadas comunidades, como por su posición extremadamente reaccionaria en aspectos sociales, de tal forma que en estos momentos Al Qaeda en Iraq está siendo contestada militarmente por la resistencia iraquí.


1. Cómo ve usted la situación de la cuestión Iraquí dentro de la sociedad europea que hace unos años se manifestó claramente contra la guerra de ocupación de su país?

El pueblo español y los pueblos europeos se volcaron en la ayuda al pueblo de Iraq antes de la guerra, estamos muy agradecidos por la movilización de los amigos españoles contra la guerra de agresión contra nuestro país. Nosotros somos los representantes del pueblo iraquí y con los que tienen que hablar los ocupantes. Hoy cuando los europeos se quedan sin empleo es también debido al enorme costo económico de esa guerra. La inversión del gobierno Busch en la guerra contra Iraq ha acabado de arruinar a su propio país y lanzar a todo el mundo a una enorme recesión económica.

2. La imagen que promovieron los medios de comunicación del partido Baas y su más alto dirigente Sadam Husein, era la de un partido centralista, represor y dictatorial, usted es tanto portavoz del Partido Baaz Árabe Socialista (PBAS) como del Frente Patriótico Nacionalista e Islámico y de mando militar unificado, ¿qué ha cambiado en el partido Baaz tras la invasión de Iraq?

El frente nacionalista e islámico es el representante de la resistencia iraquí, representa las facciones militares y políticas de la resistencia iraquí, también se compone de otros grupos que no aceptan la ocupación militar. Dentro de este frente es el partido Baaz quién representa en este momento la resistencia, con 5 millones de simpatizacentes y militantes, forma el partido más importante. El partido Baaz quiere construir, desde bases democráticas y humanitarias un nuevo Iraq. Quiere no sólo expulsar a los norteamericanos sino librar al país de problemas étnicos o sectarios, con respeto a las minorías y a la diversidad que existe en el país. La visión del Frente es diferente a la de la época anterior, se basará en la democracia y la integración de todas las etnias.

3. ¿Cómo se agrupan las diferentes corrientes de la resistencia?

La resistencia iraquí está unida en tres grandes formaciones políticas, la primero es la Alianza superior para la “Yihab” y la liberación, se compone a su vez de 33 partidos y organizaciones, engloba a árabes, turcos, kurdos, turcomanes etc… es multiétnica y multirracial, se extiende por todo el país. Su objetivo es la liberación de Iraq de la ocupación americana. Es un movimiento nacionalista y no radical (en sentido religioso), se enfrenta contra el terrorismo y el sectarismo. El 90 % de la resistencia está dentro de este Frente. Los otros dos grupos opuestos a la ocupación son el Frente para el cambio (6 organizaciones) y el Frente para la mejora (2 organizaciones) entre los dos representan el 10% de la resistencia, son islámicos y fundamentalistas, no representan al pensamiento nacional iraquí, aunque hay un acercamiento entre los 3 los grupos.

La lucha militar ha hecho que los militares EEUU pierdan la guerra en Iraq, hay miles de muertos. Según las cifras oficiales. 4500 soldados americanos muertos. 40000 heridos, 12000 sufren enfermedades mentales derivadas de la guerra. 3000 suicidios. Las cifras reales son mucho mayores puesto que los norteamericanos no incluyen la muerte de los mercenarios o aquellos soldados que aún no son ciudadanos norteamericanos aunque combaten en sus filas. Los afectados directos superan los 60000 según fuentes oficiales más de 1/3 del total de las fuerzas implicadas. La resistencia tiene datos que multiplican estas cifras.

4. ¿La resistencia incluye facciones de Al Qaeda?, ¿consideran ustedes a Al Qaeda en Iraq como una organización resistente?

Al Qaeda no forma de parte de la resistencia sino de la ocupación. Al Qaeda entró en Iraq con los norteamericanos. Al Qaeda no existía antes de la ocupación. Durante el primer año el objetivo de Al Qaeda eran los propios soldados norteamericanos, posteriormente Al Qaeda deja de atacar al ejército norteamericano y se dedica a atacar a la población civil, en escuelas, mercados etc. La dirección de Al Qaeda está en manos de norteamerica, de esta forma pueden hablar los ocupantes de que vienen a defender a la población civil y que es la resistencia la que mata a los civiles iraquíes.

5. Según algunos medios de comunicación, noticias divulgadas en ocasiones por los mismos mandos militares de EEUU en Iraq, hay diferencias tribales que han conducido a enfrentamiento entre grupos, contra Al-Qaeda y contra las tropas de ocupación. Desde su punto de vista. ¿cuál es la situación real?

La sociedad iraquí es una sociedad tribal muy mezclada y con diversas confesiones. Antes de la ocupación las familias iraquíes convivían sin problemas, es muy normal familias formadas por miembros con diferentes confesiones religiosas, marido chiita, mujer sumita o al contrario, familias kurdas mezcladas o católicas etc. Los enfrentamientos entre sunitas y chiitas, lo son en la medida que fuerzas extranjeras, incitan a escuadrones de la muerte a masacrar a la población civil, intentando enfrentar a unas comunidades contra las otras. Aquí la influencia de Irán, EEUU e Israel se ven claramente, es un intento de conseguir la segregación étnica del país. En ocasiones las milicias mafiosas de unas mismas confesiones religiosas se enfrentan entre ellas por conseguir zonas de influencia económica dentro de las ciudades, aunque pertenecen a la misma confesión. No representan más allá del 5% de la población iraquí, el resto el 95% no aceptan a estas milicias. No tenemos miedo a una guerra sectaria en Iraq, no pasará nunca. Los norteamericanos y la ocupación, intentan fomentar la guerra civil después de su derrota para justificar la permanencia en el país. La resistencia, en cambio, se compone de miembros del pueblo de todo el espectro social del país. La resistencia se está enfrentando a esta política, que pretende destruir al país como unidad

6. ¿Consideran ustedes a la corriente de Moqtda as-Sáder y su Ejército del Mahdi una fuerza resistente?

La corriente de Moqtda as- Sader y el ejército del Mahdi, no es una parte de la resistencia iraquí, están dentro de la ocupación, forman parte de ella, tienen 24 diputados en el parlamento colaboracionista, 3 ministros en el gobierno, han creado milicias y grupos terroristas, han asesinado a muchos nacionalistas iraquíes y a mucha otra gente de confesiones religiosas diferentes en nuestro país. Tienen el apoyo directo de Irán que ha enviado armamento, pretenden fomentar la guerra civil en Iraq con el apoyo del gobierno colaboracionista. Cuando se diferenciaron del gobierno, hubo enfrentamientos militares entre las milicias y el gobierno colaboracionista, se retiraron los tres ministros pero quedaron los parlamentarios. ¿Cómo se puede ser de la resistencia y formar parte de un gobierno que ha creado la misma ocupación? En estos momentos, oficiales del ejército regular iraní comandan al ejército del Mahdi. Tampoco podemos olvidar la intervención del Mossad israelí en la colocación de bombas en los mercados y las escuelas. El sector nacionalista que convivía en el ejército del Mahdi ha abandonado el grupo en señal de protesta. En este momento el dirigente máximo de este grupo, Moqtda as-Sader, vive bajo la protección de Irán en la ciudad iraní de Qon,

7. La posición del presidente Obama respecto a Irán parece que varía. ¿Qué papel desempeña Irán en este panorama?

No existe ningún enfrentamiento real en cuanto al tema de la ocupación entre Irán, EEUU e Israel, el único problema que existe en este momento es la no aceptación por parte de EEUU del programa nuclear Iraní, intentan partir el país en zonas de influencia. El interés de Israel es que Irán fomente la lucha sectaria entre facciones en el país. Las declaraciones de Obama sobre Irán apuntan a un pacto entre los tres países en un intento de derrotar a la resistencia y fragmentar el país. Declaraciones como las de Simón Pérez (presidente de Israel) señalando que hay históricamente, desde la época del Imperio persa de Nabucodonosor, unas buenas relaciones entre el pueblo persa y Israel abundan en la idea de un pacto entre los tres. La única solución es la victoria de la resistencia iraní, no aceptamos otra cosa que no sea la victoria cueste lo que cueste.

8. ¿Cuáles son las demandas de la resistencia? ¿Están ustedes dispuestos a negociar con EEUU?

Estamos construyendo una sociedad multiétnica, basada en la democracia, pero no la democracia que nos han traído los EEUU, basada en el asesinato, la matanza o el robo, sino una democracia donde estén reconocidos todos los derechos humanos y la población tenga los medios básicos de subsistencia (casa, comida, escuelas….) La democracia que han traído los americanos no tiene nada que ver con todo eso. Nosotros, la resistencia iraquí, pedimos la libertad cono en España, donde existan diversos partidos no sólo un partido único.

La negociación con EEUU se producirá cuando el último soldado de EEUU abandone el país, en ese momento y no otro estaremos en disposición de negociar con norteamerica de nación a nación. Los discursos de Obama siguen los mismos pasos firmados por Bush y su gobierno. ¿Qué pasa con los muertos, heridos y exiliados? No habla de la situación en Irak del medio centenar de bases que tiene por todo el territorio. En el momento que habla de retirar tropas se están creando tres super-bases aéreas con pistas de despegue de 4 km de longitud. Por ahora no ha cumplido nada. Continúa la fachada de un gobierno iraquí detrás del cual todos los equipos y los asesores vienen de fuera del país. Obama parece querer evitar la derrota. Que recuerde que con esta guerra Bush humilló a su propio país y a su ejército. Se pueden ver por Bagdad, a soldados ocupantes llorando. Han sufrido cerca de 60000 bajas, un tercio del total de las tropas implicadas entre muertos en combate, heridos, suicidios y trastornos mentales. Esta guerra, le ha supuesto a EEUU miles de millones de dólares en pérdidas, (algunos económistas hablan de 3 billones de dólares). Y es una de las causas de la actual crisis mundial.

9. Recientemente usted desmentía al ex primer ministro Iyad Alawi, quien afirmó que había contactos entre EEUU y la resistencia que usted representa.

La primera condición es la retirada completa de las tropas de ocupación y detener el proceso político iniciado en Iraq. La ocupación militar está fuera de la ley, por tanto todo lo que han hecho está fuera de la ley. Nosotros queremos reconstruir Iraq de forma democrática, no con las milicias sectarias que existen en este momento. EEUU tiene que pagar las indemnizaciones correspondientes por todo el daño que han hecho en Iraq. Tiene que hablar con los representantes del pueblo iraquí que son la resistencia representada por el partido Bass. El ejército ni la policía actual no representan al estado iraquí en cuanto que está divido en milicias sectarias, pretendemos un ejército nacional que represente a todo Iraq como una nación. El partido Bass que es la vanguardia de la resistencia, representa al pueblo iraquí.

10. ¿Cómo está la situación militar en estos momentos por parte de la resistencia?

Desde el comienzo de la ocupación la resistencia ha realizado más de 55000 operaciones militares, en este momento realizan cerca de 60 diarias. La lucha no es sólo militar, sino económica y política, está dentro del pueblo, no sólo la realizan militares sino toda la población en su conjunto. Resistir forma parte de la vida cotidiana de muchas familias, se lleva una vida normal de lunes a viernes para luego planificar y estudiar como atacar a las tropas invasoras. La resistencia tiene un enorme stock de armas, sabe cómo usarlas y está preparada para resistir durante generaciones si es necesario. Habitualmente los ataques se hacen con grupos dispersos por todo el territorio de 4 personas.

11. ¿En caso de que las tropas estadounidenses se retiren de Iraq, no habría una guerra civil en el país?

No habrá guerra civil en el país porque la diferenciación étnica en el país es consecuencia de la ocupación y de las tropas extranjeras que se han afincado en el país, es completamente ajena a la realidad del país antes de la ocupación.

12. Como valoran los sucesivos discursos de Obama sobre la retirada de las tropas en Iraq? ¿A qué se debe el cambio de actitud de EEUU en la actualidad?

El cambio de actitud de la administración norteamericana es debido a la derrota militar que ha sufrido. El poderoso ejército norteamericano ha sido incapaz de derrotar la resistencia del pueblo iraquí, al mismo tiempo que se enfangaba más y más en la guerra, las dificultades económicas para la superpotencia se han agudizado. Es en este contexto donde los discursos del presidente Obama intenta salvar una situación que se les hace muy difícil. A pesar de ello hay muchas cosas que no están claras en las problemas del presidente. Del compromiso inicial de retirada en seis meses se ha pasado a la retirada en 16 y posteriormente a 19 o más según el Secretario de Defensa. El presidente Obama no ha mencionado que va hacer con los 180000 mercenarios que están en el país. Tampoco habló de las 50 bases norteamericanas en Iraq. ¿Qué va hacer de las 3 bases supergigantes que hay en construcción o ampliación en este momento?

¿Que hará con los consejeros norteamericanos?, cada ministro tiene un grupo de asesores americanos que son los que realmente mandan

Tampoco habló de las leyes económicas legisladas durante 6 años. ¿Qué va hacer con la Ley de privatización de los hidrocarburos?. ¿Qué va hacer con la gente que en este momento control realmente el país?

En su discurso Obama no habló en ningún momento del derecho de los iraquíes a su propio país a su propio territorio. No habló de las indemnizaciones que ha de pagar a Iraq.

13. ¿Qué condiciones debe darse para la reconstrucción? ¿Cómo se puede reconstruir un país partiendo de la base de una destrucción tan absoluta como la que se sufre el país en estos momentos?

Efectivamente, la destrucción del país es enorme, pero tenemos una gran experiencia en la reconstrucción. En la guerra de 1991 fueron lanzadas sobre el país 130000 tm de bombas, el pueblo iraquí con sus propios medios fue capaz de reconstruir todas las infraestructuras básicas en menos de un año. La electricidad fue restituida en tres meses tras el ataque en 1991. Hoy, tras seis años de ocupación, han sido incapaces de dar electricidad al país más allá de 3 horas diarias. Irak tiene una red de técnicos que muchos países del mundo no tienen. Según la OMS y la UNESCO, la cobertura médica meses antes de la guerra del Golfo, era la mejor de todo Oriente Medio. Confiamos plenamente en nuestros técnicos y científicos para reconstruir el país. Pedimos a todos los que nos ayudan que colaboren en la reconstrucción de Iraq.

Eduardo Luque

Extraído de Visiones Alternativas.

Encerclement de l'Iran (1/6)

L’encerclement de l’Iran à la lumière de l’histoire du “Grand Moyen-Orient” (1/6)

Extrait d’une allocution de Robert Steuckers à la Tribune de “Terre & Peuple-Lorraine”, à Nancy, le 26 novembre 2005.
Ce document sera publié en six parties.

(Synergies européennes - Bruxelles - mai 2006) - L’objectif des manoeuvres américaines dans le “rimland” entre la Russie et les mers chaudes (Méditerrannée, Océan Indien, Golfe Persique) vise non seulement à empêcher la constitution et la consolidation de tout axe Moscou-Téhéran, voire Beijing-Téhéran, mais aussi à encercler l’Iran, pièce centrale du marché commun que les Etats-Unis veulent faire émerger et appellent “Grand Moyen Orient”, une vaste zone dont ils entendent faire un débouché pour leur propre industrie, complétant ainsi les atouts que leur offre le contrôle économique du continent sud-américain, transformé de facto en un “Ergänzungsraum” (“espace de complément”) depuis l’émergence de l’idéologie panaméricaniste, mais espace aujourd’hui rebelle qui s’auto-organise via des structures unificatrices et continentalistes telles le Mercosur ou la “Communauté andine des nations”, ou via des suggestions indépendantistes, baptisées “bolivaristes” et formulées par le président vénézuélien Hugo Chavez. Ces structures modernes, incarnant un esprit de résistance latino-américain, entraînent une réorientation, encore timide mais certaine, du commerce et de l’économie sud-américains vers l’Europe ou vers l’Asie, diversifiant ainsi les rapports de dépendances; ce qui permet à l’Amérique ibérique de déserrer l’étau du “panaméricanisme” imposé par les Etats-Unis à leur seul profit.

En prenant l’Afghanistan et l’Irak, les Etats-Unis ont commencé la construction de leur “Grand Moyen Orient”, en éliminant par la force la rétivité du Baath irakien et de Saddam Hussein et en occupant le plateau afghan, jamais conquis par les Britanniques au 19ième siècle. Avec ces deux victoires militaires, non encore parachevées mais en voie de l’être, les Etats-Unis ont ipso facto encerclé l’Iran, aire centrale du “Grand Moyen Orient” dont ils ont programmé la future émergence. Les Etats-Unis occupent désormais la périphérie des anciens empires perses et installent des bases militaires afin d’asphyxier à terme l’Iran.

Les deux seuls rôles que l’Iran peut jouer…

L’éventuel axe Moscou-Téhéran aurait permis à la Russie de se doter d’une fenêtre sur l’Océan Indien et de détenir une proximité stratégique avec la Mésopotamie irakienne et ses champs pétrolifères, avec le Koweit et l’Arabie Saoudite. Le territoire iranien est effectivement l’une des pièces maîtresses —avec l’Empire ottoman déjà soutenu par Londres en 1798-99 contre Bonaparte en Egypte— du dispositif de “containment”, d’endiguement anti-russe. Dès 1801, quand le Tsar Paul I, malgré sa saine hostilité à l’endroit de tous les avatars nauséabonds de la révolution française, veut s’allier à Bonaparte pour envahir les Indes, Londres dépêche un certain Capitaine John Malcolm, très jeune mais excellent connaisseur de la langue persane, auprès de l’empereur perse pour en faire un allié et contenir la poussée probable des Cosaques le long de la côte orientale de la Caspienne. Aux yeux des stratégies thalassocratiques anglo-saxonnes, l’Iran ne doit avoir qu’un seul rôle, celui d’un verrou, destiné à empêcher toute progression russe en direction de l’Océan et du sub-continent indiens. Mais aussi d’un Etat sage, qui doit “oublier” l’existence même des littoraux arabiques du Golfe Persique et ne plus formuler aucune revendication sur ces terres; comme ce fut pourtant le cas dans les phases antérieures de son histoire. Si l’Iran entend changer de politique, s’allier à la Russie, se doter d’un armement capable de lui procurer la suprématie dans les eaux du Golfe, se détacher d’une tutelle étrangère imposée, il devient immédiatement un Etat ennemi, voire un “Etat-voyou” (selon la nouvelle terminologie médiatique américaine).

Le Shah est tombé parce qu’il s’entendait avec les Irakiens sur le Chatt-el-Arab et développait une capacité militaire amphibie (avec aéroglisseurs de combat) dans le Golfe lui permettant, le cas échéant lors d’un putsch “marxiste” à Bahrein, de débarquer des troupes sur la rive arabe du Golfe. Juste avant la “révolution” de 1978, la marine iranienne devait atteindre des effectifs substantiels et acquérir un matériel performant, avec pour objectif géopolitique, de “maintenir la stabilité et la paix” dans l’Océan Indien, zone où devait, selon le dernier Shah, émerger un “marché commun des pays riverains”. Le Shah entendait forger de bonnes relations avec l’Europe, y compris l’Europe de l’Est, contribuer à l’industrialisation de l’Inde, diversifier ainsi ses approvisionnements technologiques et ne plus dépendre de la seule Amérique. Dans sa “réponse à l’histoire”, le dernier Shah, évoquant l’invasion soviéto-britannique d’août-septembre 1941, est clair: “Comme en 1907 (cf infra), l’Iran devait être converti en un espace neutre, entretenu en état d’anarchie décente”. La “révolution” de 1978 n’avait pas d’autre objectif.

Comme le rappelle, dans ses mémoires personnelles, un ministre du gouvernement impérial iranien, Houchang Nahavandi, le mouvement de Khomeiny servait de fait les intérêts américains. Les Etats-Unis voulaient un Iran faible à leur dévotion, qui n’utiliserait pas les plus-values du pétrole pour se moderniser et s’armer, stagnerait dans une sorte de néo-médiévisme religieux, pimenté quelques fois de ce gauchisme hystérique et incapacitant, ramené par certains étudiants iraniens des campus ouest-européens ou américains. Bernard Hourcade rappelle d’ailleurs fort judicieusement que c’est l’antenne iranienne de la BBC qui a fait la promotion de Khomeiny et non pas une quelconque station soviétique ou chinoise (on dit en Iran aujourd’hui: “Rasez la barbe d’un mollah et vous verrez apparaître la mention “made in Britain” estampillée sur ses joues”, cf. Molavi, cit. infra). Mais finalement, le pouvoir islamique ne s’est pas aligné sur les positions américaines, n’a pas renoncé à certaines revendications territoriales iraniennes, a tenté de nouer des relations avec l’Europe et la Russie. L’Iran islamiste-révolutionnaire est dès lors mis au ban des nations parce qu’il reste finalement, comme l’explique fort bien l’iranologue français Bernard Hourcade, fidèle à une sorte d’exception persane au beau milieu de cette région centrale du continent asiatique, située sur l’ancienne Route de la Soie.

L’affrontement entre Rome et les Parthes

L’importance du passé perse pour comprendre la situation actuelle nous oblige à procéder à une longue rétrospective historique et à nous remémorer les événements qui ont secoué la région immédiatement avant la conquête arabe, tout juste après la mort de Mahomet. L’empire romain uni s’était heurté aux Parthes pendant des siècles. On se rappelle les expéditions de Lucullus en Asie Mineure entre 74 et 68 av. J. C., amenant la puissance romaine aux confins de l’Arménie du Roi Tigrane, qu’elle a vaincu, et de l’empire parthe. César, dans les mois qui ont précédé son assassinat aux Ides de Mars -44, carressait le dessein de conquérir les pays des Daces sur le Danube et de repousser les Parthes plus à l’Est. Bien plus tard, Trajan réalise ce projet géopolitique: il bat les Daces de Décébale, pénètre en Arabie Pétrée (autour du centre caravanier de Pétra) et entre en contact avec les Parthes. C’est lui qui pousse les frontières de l’empire romain jusqu’au Golfe Persique, en annexant successivement l’Arménie, la Mésopotamie et la Syrie, à la suite d’une campagne de trois ans (de 113 à 116 ap. J. C.). Son successeur, Hadrien, ne parvint pas à s’y maintenir, à la suite de contre-attaques parthes et d’une révolte juive dans tout le Levant. En 253, les Parthes prennent Antioche. En 259, l’empereur Valérien fait face à la nouvelle dynastie parthe, les Sassanides, est pris prisonnier, humilié. Les armées parthes pénètrent en Asie Mineure, tandis que les Germains harcèlent l’empire du Pas-de-Calais à l’embouchure du Danube. En 297, la victoire revient aux Romains, mais les Parthes conservent le monopole du commerce de la soie, qui vient de Chine. L’empereur sassanide Chahpuhr II envahit ensuite l’Arabie, et plus particulièrement le Yémen, puis bat les Romains en Mésopotamie, au cours d’une guerre de huit ans (337-339). L’empereur Julien meurt au combat contre les Parthes sassanides en 363.

La menace des Huns Hephtalites

Il faudra un danger extérieur, l’arrivée des Huns Hephtalites en 484 pour voir Romains d’Orient et Parthes unir leurs efforts contre l’ennemi commun, non indo-européen. Nous sommes en 505. Mais dès le danger des Huns Hephtalites conjuré, les Sassanides reprennent et pillent Antioche en 540. Ils s’allient ensuite aux Turcs (avant l’islam) pour battre les Hephtalites, abandonnant l’alliance byzantine. Les Sassanides s’allient alors aux Avars, établis en Pannonie (la Hongrie actuelle), pour prendre les Byzantins à revers dans les Balkans et sur le cours du Danube. Cette tribu hunnique faillit prendre Constantinople. Les Byzantins, Romains d’Orient, en profitent pour tenter de reconquérir l’Occident, sous l’impulsion de leur empereur Justinien (qui règna de 527 à 565); sous le commandement de Bélisaire, ils prennent Rome en 536 et battent les Wisigoths d’Espagne en 552. Ils christianisent les tribus africaines de la vallée du Nil en Nubie et au Soudan. Ils parviennent ainsi à établir une jonction permanente avec l’Ethiopie chrétienne, alors appelée empire d’Axoum, et à envahir le Yémen entre 522 et 525. L’objectif était de prendre les Perses à revers en contrôlant et en christianisant la péninsule arabique.

Abraha, gouverneur axoumite/éthiopien du Yémen, marche ainsi sur La Mecque encore arabe-païenne, flanqué de ses alliés arabes pro-byzantins, unis au sein de la Confédération de Kinda. Les Ethiopiens persécutent les païens et les juifs, tandis que les Perses, lors de leurs contre-attaques, persécutent les chrétiens. Ces événements se déroulèrent en 570, année de la naissance de Mahomet, dite l’”année de l’éléphant” (“Huluban”), parce que l’armée d’Abraha comprenait au moins un éléphant de guerre. Les Perses répliquent et envahissent le Yémen éthiopien, allié de Byzance en 575 et en font une province perse en 597. Tout au long de cette longue guerre entre Byzance et la Perse, les peuples sémitiques du Proche- et du Moyen-Orient sont soit les alliés de Byzance, tels les Nabatéens et les Ghassanides, soit les alliés des Perses, telles les tribus du Royaume Lakhmide. Les peuples sémitiques sont donc divisés, non seulement par leurs allégences politiques, mais aussi sur le plan religieux (ils sont païens, juifs ou chrétiens).

L’empereur perse Khosru II, entre 612 et 615, envahit la Syrie, la Palestine, l’Asie Mineure et pousse des pointes avancées en Egypte et jusqu’en Cyrénaïque. Héraclius, fils du gouverneur militaire byzantin d’Afrique du Nord, reprend l’empire en mains, rétablit une économie prospère, achète les Avars et prépare la revanche. En 627, les Byzantins, qui ont mis peu de temps à se redresser, contre-attaquent vigoureusement et mettent Ctésiphon, la capitale sassanide, à sac. Les deux empires de souche européenne sont exsangues face au monde extérieur.

La lutte entre Byzance et la Perse : arrière-plan de l’émergence de l’Islam

Ce conflit interminable a marqué le jeune Mahomet, caravanier d’Arabie. La péninsule est envahie au Sud et, au Nord, les peuples sémitiques, parlant l’araméen, chez lesquels aboutissent les caravanes, participent à la guerre. Mahomet doit trouver une formule pour rétablir les communications puis pour unir des populations hétéroclites, fragmentées en tribus hostiles les unes aux autres, hostilité sur laquelle se greffent encore des clivages religieux. Cette guerre permanente de tous contre tous ne permet aucun projet: ni politique ni économique ni commercial. Mahomet forge alors la foi islamique en écrivant en araméen le Coran, fait référence à l’archange Gabriel (“Jibraïl”); c’est une foi simplifiée, accessible, claire dans sa formulation, soustraite aux querelles des iconoclastes et des iconodules qui ravagent Byzance et la minent de l’intérieur. Son objectif est raisonnable et limité: pacifier, grâce à un code modèle, le territoire où circulent ses caravanes et celles de ses homologues. Les opérations militaires qu’il mène ne dépassent pas le cadre des routes et pistes de l’Ouest de la péninsule arabique. Il réussit à unir ce versant occidental de la péninsule d’Akaba à Aden. A l’Est, Bahrein et Oman reconnaissent le code suggéré par Mahomet. Jusqu’à la mort de ce dernier en 632, aucun prosélytisme extra-arabique ne semble poindre.

Les Arabes battent Byzantins et Perses exsangues

Après 632, Abou Bakr, son beau-père et successeur, unifie entièrement l’Arabie, parachève l’oeuvre politique et géopolitique de Mahomet, et envoie de petites armées vers le nord et bat, contre toute attente tant ses effectifs sont insignifiants, les Byzantins à Gaza en 633; peu après, les Byzantins, exsangues, sont une nouvelle fois battus par le Général arabe Khalid Ibn al-Walid, disposant d’effectifs à peine plus nombreux. Le sort des deux empires est scellé: les Arabes n’ont besoin que d’armées ridiculement réduites pour battre les deux colosses qui se sont entre-déchirés à mort. Ils en profitent. Tout naturellement. En 636, Damas et Antioche tombent entre leurs mains. En 637, après la bataille de Qadisiyya, l’armée sassanide est battue et la capitale perse, Ctésiphon, est prise, réduisant à néant l’oeuvre de plusieurs générations d’empereurs sassanides. En 638, c’est le tour de Jérusalem. Toute la frange sémitophone/araméenne des deux empires passe preque entièrement à l’islam, puis vient le tour de l’Egypte et du reste de la Perse.

La morale à tirer de cette victoire des maigres forces arabes est simple: les empires, de matrice européenne, n’ont jamais uni leurs forces contre les périphéries, ont ignoré l’émergence des peuples hunniques d’Asie centrale et des peuples sémitiques de la péninsule arabique. L’islam est donc né, et s’est ensuite consolidé, d’une lassitude légitime face à ces guerres inutiles, surtout que le danger des Huns et des Avars aurait dû unir les trois empires, romain-byzantin, perse et gupta en Inde (envahi entre 450 et 535 par les Huns Hephtalithes qui avaient été arrêtés par les Perses), exactement comme les Romains, les Francs, les Wisigoths et les Burgondes avaient tu leurs querelles et uni leurs armées pour arrêter Attila dans les Champs Catalauniques. La disparition de l’empire gupta, rappelons-le, est une tragédie culturelle, dans la mesure où il avait été le théâtre d’une véritable renaissance hindouiste, qui consolidée, aurait fait émerger un môle de résistance plus sûr face aux futures religions prosélytes de toutes provenances. Une alliance des trois empires aurait, en outre, rendu inexpugnable l’ensemble du “rimland” euroasiatique, de l’Ecosse au Bengale.

Des Karakhanides aux Seldjouks

Après la conquête arabe, la Perse conserve malgré tout sa personnalité politique. D’autres invasions l’attendent et d’abord celle des Turcs seldjoukides. Ils venaient de la steppe d’Asie centrale et on les appelait les “Karakhanides” ou les “Toghuz Oghuz” ou, plus simplement, les “Ghuzz”. Neuf tribus composaient cette fédération. Vers le milieu du 11ième siècle, elles se divisent en deux branches: l’une envahit le sud de la Russie et l’Ukraine actuelle, l’autre l’Iran. Les tribus qui envahissent la Russie prendront le nom de “Coumans” et resteront païennes. Les autres tribus, rassemblées autour des Seldjouks, se mettent au service de Mahmoud de Ghazni, qui leur donne des terres près de l’actuelle cité de Merv. A la mort de Mahmoud, les Turcs battent son fils Massoud et l’empire perse ghaznavide s’effondre définitivement en 1040, prouvant par là que les serments de fidélité ne valent qu’au sein des mêmes groupes de peuples. Les Seldjouks appellent d’autres tribus turques ghuzz de la région de la Mer d’Aral. Les derniers Ghazvenides se replient en Afghanistan. L’Iran tombe alors entièrement sous la tutelle d’une élite militaire turque ghuzz-seldjoukide.

Manzikert : désastre byzantin

En 1055, sous la conduite de leur chef Toghrul Bey, les Seldjouks prennent Bagdad, se mettent au service du calife puis, quelques années plus tard, arrachent aux Byzantins l’ensemble de la Transcaucasie chrétienne, à la suite de la bataille décisive de Manzikert (1071), livrée pour le contrôle des hautes terres d’Arménie. La victoire turque fait perdre à Byzance toutes ses provinces d’Asie Mineure. Les clans d’Asie centrale suivent l’armée d’Alp Arslan, fils de Toghrul Bey, poussent leurs troupeaux devant eux et chassent tout le paysannat helléno-européen d’Anatolie: une véritable colonisation de peuplement! Le remplacement systématique d’un peuple par un autre! Dans les années 1070, c’est au tour de la Syrie et du Hedjaz (Ouest de la péninsule arabique). Alp Arslan devint ainsi le maître d’un immense empire islamique, dont le tremplin territorial avait été une région centre-asiatique non encore islamisée au nord de l’espace perse.

Le système turc est clair: prendre le contrôle des empires en en constituant le fer de lance militaire et en faisant main basse sur l’administration, en multipliant les serments de fidélité et en les trahissant immédiatement dès que l’occasion et les rapports de forces le permettent. Mais l’intransigeance turque braquera l’Europe qui se défendait bien par ailleurs: les petits royaumes espagnols, fondés par des guerriers suèves, alains ou wisigothiques, unissent leurs forces, reprennent Tolède, centre névralgique de la péninsule ibérique en 1085 et Badajoz en 1092; une poignée de Normands intrépides, sous le commandement de Roger de Hauteville, reprend la Sicile et Malte (1091), après un demi-siècle de lutte; Henri de Bourgogne devient roi du Portugal, espace ibérique dégagé en 1097 de l’emprise maure. Après cette élimination de la présence musulmane sur de vastes territoires européens, l’heure de la contre-attaque contre les Seldjouks va sonner: les Byzantins font appel au Pape Urbain II en 1095. Il prêche la croisade à Clermont-Ferrand, appelant les peuples et les nobles de l’Europe occidentale germanisée à chasser de la Romania byzantine les Turcs, désignés comme étant une “race étrangère”. Il sera entendu. Des milliers de volontaires issus du peuple partent avant les autres: ils sont écrasés. Les Turcs cessent de prendre l’idée de croisade au sérieux. A tort. Les armées de métier, commandées par les ducs et les princes avancent le long du Danube et traversent le Bosphore. Les croisés engagent le combat contre le Sultan de Rum, prennent Nicée. Le Normand Bohémond de Tarente et l’Occitan Raymond de Toulouse, connaissant la tactique turque du harcèlement par les archers et d’évitement de tout choc frontal, ne se laissent pas surprendre, lors d’une bataille ultérieure à Dorylée: ils modifient leur stratégie, rusent et manoeuvrent habilement, encerclent et écrasent l’armée turque et marchent sur Antioche. La route de Jérusalem, occupée par les troupes arabes fatimides venues d’Egypte, était libre. Les Croisés dénoncent l’alliance qu’ils avaient conclue tacitement avec les Fatimides, ennemis des Seldjouks, et prennent Jérusalem.

lundi, 11 mai 2009

Islam et laïcité: la naissance de la Turquie moderne

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1989

Islam et laïcité: la naissance de la Turquie moderne

Bernard LEWIS, Islam et laïcité, la nais­sance de la Turquie moderne,  Fa­yard, Paris, 1988, 520 pages, 195 FF.

 

La Turquie est beaucoup de choses à la fois, des choses étroitement mêlées et imbriquées les unes dans les autres. L'enquête historique de Bernard Lewis commence d'ailleurs par nous signaler les différences entre les termes «turc/Turquie» et «ottoman». Le terme «turc» désigne une popu­la­tion ethniquement distincte, de langue turque, installée en Anatolie. Le terme «ottoman» n'a qu'une signification dynastique. Il existe donc une ethnie turque distincte mais non une ethnie ottomane. Le principe turc est un principe eth­nique; le principe ottoman, un principe politique, dé­taché de toute ethnicité concrète. La turcologie euro­péenne du XIXième siècle redonnera aux Turcs d'Anatolie le goût de leur passé, qu'ils avaient aban­donné pour servir l'Islam ou la machine politique ot­tomane. Mais malgré ce re­niement de la turcicité pré-islamique, les racines turques reviendront à la surface, bien que ca­mouflées, dès l'expansion au XVIième siècle des Osmanlis. Ceux-ci se donnaient une gé­néa­logie mythique et prétendaient descendre d'une tribu turque, les Oguz. Mais les ethnies turques no­mades, réservoir démographique de l'Empire Ottoman qui reprend l'héritage byzantin, sont regardées avec méfiance voire avec mépris par le pouvoir qui voit en elles des bandes non po­licées, susceptibles de boule­verser l'ordre im­périal. «Turc» est même, à cet époque, un terme injurieux, signifiant «rustaud», «abruti» ou «grossier».

Quant à l'Islam, troisième élément déterminant de l'histoire turque après le prin­cipe impérial et les facteurs ethniques, c'est un Islam accepté de plein gré, qui n'est pas le fruit d'une conversion. Moins prosélyte et plus tolérant, l'Islam turc n'a pas cherché à convertir de force chrétiens (grecs) ou juifs mais a pratiqué à leur égard une sorte d'apartheid rigoureux, si bien que les Grecs et les Juifs d'Istanbul ne parlaient pas turc. L'Islam turc est aussi plus varié que l'Islam arabo-sémitique: des élé­ments de chamanisme, de bouddhisme centre-asia­tique, de manichéisme et de christianisme offre une palette de syncrétismes, rassemblés dans des ordres religieux, les tarikat, toujours soupçonnés par le pou­voir parce que susceptibles de subversion. Quatrième élément, enfin, c'est le «choc de l'Occident», l'influence des Lumières, surtout françaises, et des doctrines politiques libérales et étatiques. Bernard Lewis analyse méthodique­ment les influences occi­dentales, depuis 1718, année du Traité de Passaro­witch, sanctionnant une défaite cuisante que les Otto­mans venaient de subir sous les assauts austro-hon­grois. La Porte constate alors son infériorité technique et militaire et décide d'étudier les aspects pratiques de la civilisation européenne et d'en imiter les structures d'enseignement. Cette politique durera jusqu'au début de notre siècle, avec l'aventure des Jeunes Turcs puis avec la République de Mustafa Kemal. B. Lewis re­trace la quête des étu­diants et des hommes politiques turcs dans les universités européennes. Le travail de cette poignée d'érudits ne suffit pas à redonner à l'Empire ottoman son lustre d'antan. Russes, Fran­çais, Britanniques et Néerlandais soumettent les Etats musulmans les uns après les autres à leur domination.

Dans un autre chapitre, B. Lewis montre comment le nationalisme à l'eu­ropéenne s'est implanté en Tur­quie. Deux termes signifient «nation» en turc: vatan,  qui corres­pond à la patrie charnelle, à la Heimat   des Alle­mands (cf. watan  chez les Arabes) et millet,  qui désigne la communauté islamique (cf. milla  en arabe). Namik Kemal, théoricien du natio­na­lis­me ot­toman, constate, explique Lewis, qu'une doctrine po­litique trop axée sur le vatan  provo­querait la disloca­tion de l'ensemble ottoman multinational. Mais cette diversité ne risque pas d'éclater à cause du caractère fédérateur du millet  islamique: on voit tout de suite comment oscille l'esprit turc entre les deux pôles de l'ethnicité particulariste et de la religion universaliste. Deux idéologies naîtront de cette distinction entre va­tan  et millet:  le panislamisme et le turquisme. Le tur­quisme procède d'une politisation des re­cher­ches eth­nologiques, archéologiques et linguisti­ques sur le passé des peuples turcs, surtout avant l'islamisation. Il se manifeste par un retour à la langue turque rurale (Mehmed Emin), par une exaltation de la patrie origi­nelle commune de tous les peuples turcophones, le pays de Touran.

De là proviennent les autres appella­tions du turquisme: le touranisme et le pantouranisme. Ce mouvement sera renforcé par les réfugiés turco­phones des régions conquises par les Russes: ceux-ci sont rompus aux disciplines philolo­giques russes et appliquent au touranisme les principes que les Russes appliquent au pan­sla­visme. Le programme politique qui découle de cet engouement littéraire et archéolo­gique vise à unir sous une même autorité politique les Turcs d'Anatolie (Turquie), de l'Empire russe, de Chi­­ne (Sin-Kiang), de Perse et d'Afghanistan. L'é­chec du panislamisme et du pantouranisme, après la Première guerre mondiale, conduisent les partisans de Mustafa Kemal à reconnaître les limites de la puis­sance turque (discours du 1 dé­cembre 1921) circons­crite dans l'espace ana­tolien, désormais baptisé Tür­kiye.  Ce sera un Etat laïc, calqué sur le modèle fran­çais, une «patrie anatolienne». L'ouvrage de Lewis est indispensable pour pouvoir juger la Turquie mo­derne, qui frappe à la porte de la CEE (Robert Steuckers).

jeudi, 12 mars 2009

Golfe: la Pax Americana contre l'Europe et le Japon

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ARCHIVES DE SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Golfe: la pax americana contre l'Europe et le Japon

Entretien avec Stefano Chiarini

 

Stefano Chiarini, envoyé spécial au Moyen-Orient du journal Il Manifesto, est aussi le directeur des Editions Gamberetti qui, depuis trois ans, se sont spécialisées dans les thématiques de politique interna­tionale, en s'intéressant plus particulièrement à la problématique Nord/Sud, à la question palestinienne et aux minorités ethniques en Europe. Parmi les titres les plus significatifs parus dans leurs collections “Orienti” et “Equatori”, signalons "Amicizie pericolose" d'Andrew et Leslie Cockburn, sur les rapports entre la CIA et le Mossad, "Anno 501, la conquista continua" de Noam Chomsky et l'anthologie de récits "Strade di Belfast", dû à la plume du leader du Sinn Fein, Gerry Adams.

 

Q.: Quand sont nées les Editions Gamberetti?

 

SC: En gros, après la Guerre du Golfe. J'y avais été envoyé spécial. Revenu en Italie, j'ai participé à de nombreux débats sur la question et je me suis aperçu combien la réalité des faits avait été manipulée. Les mass media, le télévision en tête, mais aussi les quotidiens et les revues, nous ont donné une image complètement distordue de ce conflit. Nous avons donc voulu répondre à une exigence intellectuelle: ap­profondir le sujet et fournir une documentation adéquate sur ces événements en particulier et, de façon plus générale, sur tout ce qui se passe sur la scène moyen-orientale.

 

Q.: Que s'est-il passé réellement à Bagdad en 1991?

 

SC: On a surtout pu constater les premiers effets de la disparition de l'URSS. Quand l'Union Soviétique était là, et qu'elle était forte, les Américains n'auraient jamais osé entreprendre ce qu'ils ont entrepris. Autre aspect à prendre en considération: la guerre du Golfe a davantage été une guerre contre l'Europe et le Japon que contre l'Irak; cette guerre a été menée par l'Amérique pour qu'elle puisse contrôler directe­ment les sources d'approvisionnement énergétique. Les Etats-Unis n'ont plus agi par l'intermédiaire d'Israël. Leur rôle dans la région où se trouvent les principales sources de pétrole de la planète est apparu en pleine lumière. Depuis lors leur mainmise sur la région est allée en s'accélérant. Enfin, pour imposer la pax americana entre Israël et les Palestiniens, les Etats-Unis devaient nécessairement “redimensionner” l'unique pays encore en mesure de leur provoquer des problèmes dans la région, c'est-à-dire l'Irak, riche en pétrole, disposant d'une armée capable d'intimider ses adversaires potentiels, présentant une cohé­rence interne assez satsifaisante. Le pétrole doit donc rester aux mains des émirats et des cheiks, de tous les pays possédant des régimes de ce type, forts sur le plan économique mais faibles sur le plan mili­taire. L'Irak était l'unique pays arabe qui avait et de l'eau et du pétrole, une population assez nombreuse, un bon niveau technologique et une armée relativement solide. En puissance, c'était le pays le plus indé­pendant et le moins facile à faire chanter de toute la zone.

 

Q.: Et l'Iran?

 

SC: Je ne me réfère qu'aux seuls pays arabes. L'Iran avait été détruit préalablement par l'Irak, manifes­tement sur ordre des Américains eux-mêmes. Dont la duplicité comportementale est désormais évidente. La diplomatie américaine est prête dorénavant à détruire ou à aider les intégrismes au gré de ses conve­nances. N'oublions pas que l'Arabie Saoudite est nettement plus intégriste que l'Iran, tout en entretenant des rapports optimaux avec les Etats-Unis, au point d'être son meilleur allié dans la région.

 

Q.: Il me semble que les éditions Gamberetti ont évité jusqu'ici d'aborder le problème “islamique”, et se sont concentrées exclusivement sur les pays et les mouvements “laïques”...

 

SC: Nous nous sommes préoccupés par exemple de la question palestinienne qui est en quelque sorte la clef de voûte de la région. D'après moi, le problème n'est pas tant celui de l'intégrisme, car, comme on le voit, les Etats-Unis tentent de se rapprocher de l'Arabie Saoudite, mais bien plutôt celui de la distribution des ressources. Le thème des mouvements islamiques est certes un thème fort important, mais ne cons­titue nullement le nœud gordien du Moyen-Orient. Le nœud du problème est celui de l'accès aux plus im­portantes sources énergétiques de la planète et de la distribution des ressources. Les Etats-Unis sont tout prêts à s'allier avec ceux, intégristes ou laïcs, qui leur consentiront l'accès et le contrôle du pétrole; et sont prêts à annihiler militairement et politiquement ceux qui tenteraient de leur barrer la route.

 

(propos recueillis par Pietro Negri, pour le magazine romain Pagine Libere, n°2/1995).

mercredi, 11 mars 2009

Afghanistan: une guerre "inutile" pour l'ancien chef des SAS britanniques

Novopress, 7/3/2009 : "Sebastian Morley, l’ancien chef des forces spéciales britanniques (SAS) en Afghanistan a dans un entretien publié samedi par le Daily Telegraph qualifié d’« inutile » la campagne militaire contre les talibans et estimé qu’elle rappelait la guerre du Vietnam à ses débuts.

Pour le major Morley, qui a démissionné de l’armée britannique en novembre dernier en blâmant le sous-équipement chronique des troupes déployées en Afghanistan, « le nombre de victimes et l’usure des troupes ne peuvent que croître ». Il accuse également le gouvernement britannique d’avoir « du sang sur les mains ».

« C’est l’équivalent du commencement de la guerre du Vietnam », a jugé le l’officier qui a expliqué : « Nous tenons de petites portions de terrain dans la province d’Helmand (…) Nous sortons en opérations, nous bagarrons avec les talibans et rentrons au camp pour le thé. Nous ne tenons pas le terrain. Les talibans savent où nous sommes. Ils savent très bien quand nous sommes rentrés au camp ». Pour lui : « Nous nous mentons à nous-mêmes si nous pensons que notre influence dépasse 500 mètres au-delà de nos bases ». Des propos à rapprocher de ceux de l’ex-commandant français Pierre-Henri Bunel, qui déclarait voici quelques semaines au micro de Novopress : « Qui tient Kaboul, tient Kaboul, c’est tout. Mais personne n’a jamais fédéré l’Afghanistan ».

Depuis, plusieurs semaines, des voix s’élèvent pour souligner la complexité de la situation en Afghanistan et le caractère aléatoire voire illusoire d’une victoire des forces d’occupation occidentales, telle celle du Premier ministre canadien Stephen Harper - qui a récemment déclaré : « nous ne vaincrons jamais l’insurrection » - ou du député français Pierre Lellouche, qui vient d’être nommé par le président Nicolas Sarkozy représentant spécial de la France pour l’Afghanistan et le Pakistan, selon qui « on a réussi à fabriquer le premier narco-Etat de la planète financé par l’argent du contribuable de l’Otan ». Des doutes confirmés voici quelques jours par le géopoliticien Aymeric Chauprade au micro de Novopress : « on oublie la dimension civilisation elle. On ne transformera pas l’Afghanistan et tout ce qui est engagé là-bas est voué à l’échec comme ce fut le cas avec les Russes et avant eux les Britanniques »

vendredi, 06 mars 2009

Arabisch geld voor de Palestijnen?

Arabisch geld voor de Palestijnen?

Geplaatst door yvespernet

http://www.spitsnieuws.nl/archives/buitenland/2009/03/arabieren_geen_cent_voor_pales.html

De Arabische landen beloofden 1,3 miljard dollar aan de Palestijnen, maar voorlopig heeft nog niemand een cent overgemaakt. De officiele lezing is dat Hamas en Fatah het niet eens zijn over de besteding van de gelden. De Arabische landen stonden na de Israelische invasie in de rij om in het openbaar te roepen dat ze hun broeders zouden steunen.

Maar nu het op betalen komt, verzandt de hele actie in vergaderingen. Morgen wordt er verder over gesproken in Egypte. Saoedie Arabie beloofde een miljard, Qatar 250 miljoen en Algerije 100 miljoen.

Zo kan ik mij ook de actie naar aanleiding van de tsunami herinneren. Toen gaven de Arabische landen hun moslimbroeders- en zusters ook maar een peuleschil. In het geval van Palestina beloven Arabische landen veel, maar laten zij liever de sociale problemen in hun land bestaan en gebruiken ze Israël als afleiding om het protest tegen de grote ongelijkheid in hun eigen landen stil te houden.

Met de hulp van de CIA e.d. houden Arabische landen ook gematigde bewegingen tegen die de landen willen hervormen. Op die manier hebben zij zelf de radikale moslims een voedingsbodem gegeven, vaak hebben ze die radikale moslims ook actief gesteund. Willen we de moslimterroristen tegenhouden, dan is het dringend tijd om te werken aan een alternatief voor de huidige corrupte regimes. Want het is wel héél triestig gesteld als een racistische staat als Israël op het vlak van mensenrechten e.d. een palmares kan voorleggen dat op vele vlakken beter is dan de Arabische regimes…

jeudi, 05 mars 2009

Turkije en de Koerden

Turkije en de Koerden

Geplaatst door yvespernet

Wilt Turkije in de EU worden opgenomen als volwaardigd lid, moeten aan bepaalde sociale, economische en politieke voorwaarden worden voldaan. Met het toelaten van landen als Bulgarije is ondertussen gebleken dat dit voor sommige landen te snel gebeurd is en dat de controle op het naleven van die voorwaarden tekort schiet. Één van die voorwaarden, in het geval van Turkije, is het verbeteren van de huidige bewust achtergestelde toestand van de Koerden. Dat dit nog gebreken vertoont, kan volgend “incident” goed illustreren;

http://edition.cnn.com/2009/WORLD/europe/02/24/turkey.television.kurdish.party/index.html

ISTANBUL, Turkey (CNN) — The head of a Kurdish nationalist party in Turkey addressed his party members Tuesday in the Kurdish language — which is illegal — prompting the national broadcaster to pull the plug on the live broadcast. In

 

his address, Democratic Society Party leader Ahmet Turk began his speech in Turkish, addressing the value of a “multilingual culture” and decrying the fact that the Kurdish language is not protected under Turkey’s constitution. ”We have no objection to Turkish being the official language, yet we want our demands for the lifting of the ban on Kurdish language to be understood as a humanitarian demand,” he said.

Turk then announced he would deliver the rest of his speech in Kurdish and, at that point, state broadcaster TRT cut the broadcast. ”Since no language other than Turkish can be used in the parliament meetings according to the constitution of the Turkish Republic and the Political Parties Law, we had to stop our broadcast,” the TRT announcer stated. “We apologize to our viewers for this and continue our broadcast with the next news item scheduled.”

Binnen nu en een paar decennia zal bijna de helft van de inwoners van Turkije bestaan uit Koerden. Koerden migreren ook meer en meer naar de Turkse steden in plaats van op het platteland te blijven. Dit kan wel eens een zeer gevaarlijke cocktail worden…

jeudi, 26 février 2009

Indogermanische Stämme in Afghanistan

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Indogermanische Stämme in Afghanistan

Hans Friedrich Karl Günther

Zwischen den beiden indoiranischen Hauptgruppen, den Indern und den Persern, vermitteln nach ihren Siedlungsgebieten heute zwei Völker indogermanischer Sprache, die Belutschen und die Afghanen, die Belutschen unter britisch-indischer Herrschaft, die Afghanen als Herren eines eigenen Staatswesens.

In Belutschistan findet sich kaum noch eine Spur desjenigen nordischen Einschlags, den man bei den Überbringern der Sprache wie bei allen Indogermanen annehmen muß. Diese Sprache, das Belutschi, ist eine westiranische Mundart und soll in manchen Zügen altertümliche Eigenheiten bewahrt haben. Mitten in Belutschistan wird aber auch noch eine Drawidasprache gesprochen, das Brahui, und eben bei dem Brahuistamme ist auch ein deutlicher negrider Einschlag vom Schlage der Indo-Melaniden zu erkennen. Die Belutschen und die Brahui heiraten einander häufig, so daß die Kreuzung dieser beiden Menschenschläge schon weit vorgeschritten ist.

Am meisten verbreitet unter den Belutschen und in den angrenzenden indischen Gebieten ist ein rassegemischter Schlag, den Rapson geschildert hat: über mittelgroß, von verhältnismäßig heller Hautfarbe, breitköpfig, mit einer langen, ausgebogenen und ziemlich schmalen Nase, mit meist dunklen, selten grauen Augen, mit starker Körperbehaarung. Nach Schindler kommt unter den Belutschen auf etwa 200 Menschen ein Blonder. Nach dem Dictionaire des Sciences Anthropologiques, S. 135, finden sich unter den Belutschen vereinzelt Hellhäutige, Hellhaarige, Grauäuggige und Blauäugige.

Somit ist auch bei diesen Indogermanen der nordische Einschlag noch nicht ganz geschwunden, obschon gerade das Klima Belutschistans der Erhaltung nordischer Erbanlagen durchaus ungünstig ist.

Die Afghanen oder Paschtun sprechen eine indoiranische Sprache, die zu den ostiranischen Mundarten gehört. Ihre Sprache Paschtu (englisch Pushtu) genannt, ist nicht vom Altpersischen abzuleiten, stellt vielmehr eine selbständige Fortbildung des Altiranischen dar. Sie ist durch ein eigenes Schrifttum seit dem 16. Jahrhundert bekannt und wird heute von etwa 1,5 Millionen Menschen gesprochen.

Die Afghanen bilden als Ostiraner diejenige iranische Gruppe, die ursprünglich den Indern am nächsten stand. Die frühere Geschichte der Afghanen ist kaum noch erhellt. Unter den Eigennamen früherer Afghanengeschlechter finden sich solche hinduisch-indischer, solche iranischer und parthisch-iranischer Herkunft, so daß man im Afghanentum auch schon einzelne Bestandteile altiranischer und altindischer Herkunft vermutet hat.

Im 11. Jahrhundert scheinen die Afghanen noch im Suleimangebirge westlich vom mittleren Indus gewohnt zu haben, von wo aus sie dann in nördlicher und westlicher Richtung in das heutige Afghanistan einwanderten. Damit ließen sich die Schilderungen vereinen, welche die Ähnlichkeit vieler Afghanen mit Pandschabindern hervorheben.

In dem Dictionaire des Sciences Anthropologiques sind die leiblichen Merkmale der Afghanen (unter “Asie”, S. 135) nach Reane angegeben: der Längen-Breiten-Index des Kopfes beträgt 79, das Gesicht ist durchschnittlich schmal, das Haar und die Augen sind meist dunkel; doch sind helle Haare und Augen unter den Afghanen nicht selten und kommen häufiger besonders unter den Gebirgsstämmen im Suleimangebirge vor. Es wäre also möglich, daß ein heller Einschlag sich in den gebirgigen Ursitzen des Volkes deutlicher erhalten hätte.

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Zu den Afghanen gehören die Afridi, die auf britisch-indischem Gebiet zwischen Afghanistan und Nordwestindien wohnen, in den abgelegenen Gebirgstälern westlich und südwestlich von Petschaur (Peshwar) in der Nähe des Khaiberpasses. Bis 1879 haben sie als ein kriegerischer und seinen Nachbarn gefährlicher Stamm den Khaiber- und den Kohatpaß beherrscht. Die Afridi halten sich nicht für Afghanen oder wollen nicht dafür gehalten werden.

Die Afghanenstämme bestehen aus kriegerischen Hirten, geübten Reitern, die als Herrenbevölkerung die übrige Bevölkerung Afghanistans beherrschen. Trotz dem herrschendem Islam ist die Stellung der afghanischen Frau - eine Nachwirkung indogermanischer Sitte - freier als bei den Nachbarvölkern. Unter der afghanischen Herrenschicht, die nur etwa die Hälfte der Bevölkerung ausmacht, sitzen als Ackerbauern, Handwerker, und Kaufleute Tadschiken, die ebenfalls iranische Mundarten sprechen, und deren rassische Eigenart später zu behandeln sein wird. Daneben leben als Wanderhirten in Afghanistan einige türkische Stämme wie die Turkmenen und Kyzylbasch. Ihrem Glauben nach sind die Afghanen Moslem, und zwar sunnitische; zwischen sunnitischen Afghanen und schiitischen Persern besteht ein überlieferter Glaubenshaß.

Die Afghanen werden als ritterlich und gastfrei geschildert, als kühn und tapfer; ihre Neigung zu Mißtrauen, häufig bei Vorschützen einer gewissen Offenherzigkeit, wird betont, ebenso ihre Habsucht.

Elphistone (Englische Gesandtschaft am Hofe von Kabul, 1808) führt als Vorzüge der Afghanen an: Freiheitsliebe, Offenheit, Männlichkeit, Tapferkeit, Mäßigkeit, Fleiß, verständiges Wesen und Güte gegen Untergebene; in ihrem Auftreten seien die Afghanen lange nicht so lebhaft wie die Perser. Als Mängel der Afghanen vermerkt er: Rachsucht, Neid, Geiz, Raubsucht und Hartnäckigkeit. Mit einer Zusammensetzung des Afghanentums aus orientalischer, vorderasiatischer und nordischer Rasse, einer Zusammensetzung, wie sie die verschiedenen rassekundlichen Zeugnisse vermuten lassen, würde sich im ganzen gerade das Bild seelischer Züge vereinen lassen, das sich aus Elphistones Bericht ergibt.

Über leibliche Merkmale vermerkt Elphinstone, daß Kopf- und Barthaare der Afghanen meist schwarz seien, bisweilen braun, selten rot; Hellhäutige von der Helligkeit der Europäer finde man häufiger im Westen, Dunkle von der Dunkelhäutigkeit der Hindus mehr im Osten; und eben im Westen träten die oben geschilderten Vorzüge der Afghanen besonders hervor, diese “Vorzüge”, die sich ja, wenigstens zum Teil, durch Züge der nordischen Rassenseele erklären lassen. “Ich kenne kein Volk in Asien, das weniger Fehler hat” urteilt Lord Elphinstone (nach seinen abendländischen Sittlichkeitsbegriffen) und setzt hinzu, daß dies besonders für die helleren Afghanen im Westen zutreffe.

Prichard, Naturgeschichte des Menschengeschlechtes, Bd. III, 2, 1845, S89/90, führt einen Bericht Frasers an über dessen Forschungsreise in die Gebirgsländer am Mittellauf des Satledsch (englisch Sutlej), der in den Indus mündet. Dabei wurde Fraser von 80 bis 100 Afghanen (Pathans) begleitet, deren Anblick er beschreibt: “Sie sahen sehr kriegerisch aus und achtungsgebietend. Viele von ihnen hatten rotes Haar, blaue Augen und eine rosighelle Hautfarbe.”

Bei den östlichen Afghanen, die am Fuße des Suleimangebirges im Bezirke Bannu, wo der Kurum in den Indus mündet, ansässig sind, d. h. also auf britisch-indischem Gebiete, gelten helle Augen als häßlich. Wer häßlich sein soll, dem gibt Gott grüne Augen”, heißt es dort im Sprichwort. Graugrünliche Augen sollen aber unter diesen Afghanen nicht selten sein. (Gerland, Bannu und die Afghanen, Globus, Bd. 31, 1877 S. 332).

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Siedl, Unsere Feinde, 1916, S. 32, schildert Afghanen, die im Weltkriege in deutsche Gefangenschaft geraten waren, also wahrscheinlich ausgelesen kriegerische Vertreter ihres Volkes. Er hebt ihren offenen, treuen Augenausdruck hervor und findet, daß die meisten “ebensogut auf einem Bauernhofe Norddeutschlands geboren sein könnten wie in der Hütten ihrer Hochgebirgsheimat”.

In der norwegischen Zeitung Tidens Tegn vom 9. Mai 1925 hat der norwegische Sprachforscher Morgenstierne seine Eindrücke aus Afghanistan mitgeteilt (Folk og Sprog i Afghanistan): “Oft findet man blonde nordische Gestalten; sie sitzen im Gegensatz zu anderen Morgenländern auf Stühlen.” - Die Sitte des Sitzens an Stelle eines Sichlagerns oder Niederkauerns is ja nach Südeuropa und Vorderasien durch Indogermanen verbreitet worden; das Liegen beim Mahle der Hellenen und Römern ist von diesen erst später als eine Sitte der indogermanisierten Unterschichten und des Morgenlandes übernommen worden; vgl. Malachowski, Über das Sitzen bei den alten Völkern, Zeitschrift für Ethnologie, Bd. 51, 1919, S. 22/23.

Herbordt, Eine Reise nach “Där-i-Nur” im Nordosten Afghanistans, Petermanns Mitteilungen, Bd. 72, 1926, S. 207, beschreibt die Bewohner eines Afghanendorfes Sarrur in Nuristan, Nordwestafghanistan, 2500 m über dem Meere, als meist rotblonde, große Menschen mit weißlicher Haut”.

Dieser “europäische” Einschlag im Afghanentum wird auch von Afghanen selbst empfunden, wenn sie sich mit Europäern zusammen Turkbevölkerungen Innerasiens gegenübersehen. Im Pamir sagte ein Afghane zu dem französischen Forschungsreisenden Capus: “Salam aleikum brader” (brader = Bruder), als sie einander unter Kirgisen begegneten. Capus schildert die Würde und geistige Überlegenheit dieses Afghanen, demgegenüber er gleich empfunden habe: “Das ist der Europäer” (C’est l’Europeen); vgl. Zaborowski, Les Peuples Aryens d’Asie et d’Europe, 1908, S 81).

Die Afghanen haben den indogermanischen Geschlechterstaat, den über Großfamilien, Geschlechtern und Geschlechterverbänden aufgebauten Staat, in wesentlichen Grundzügen bewahrt, den “Staat”, wenn man dies so nennen darf, aus der Zeit der indogermanischen Wanderungen, wie ihn ein frühes Inder- und Persertum, frühes hellenen- und Italikertum, Kelten und Germanentum zeigen, wie ihn Homer oder die “Germania” des Tacitus erkennen lassen. Die Bewahrung der Stämme als Geschlechterverbände indogermanischer Art hat in der Geschichte des Afghanentums viel Blut, und zwar gerade altiranisch-afghanisches Blut gekostet, weil diese Geschlechterverbände untereinander diejenigen Fehden führten, die für die Frühzeiten und Mittelalter aller Völker indogermanischer Sprache kennzeichnend sind. Bis ins 19. Jahrhundert hinein sind diese Fehden der afghanischen Geschlechter sehr blutig verlaufen. Diese Unabhängigkeit der einzelstämme bildete aber - ebenfalls kennzeichnend frühgeschichtlich-indogermanischer Weise - den Stolz des älteren Afghanentums. Elphinstone, der Afghanen über diese Fehden und das Fehlen einer Übergeordneten Königsmacht befrug, erhielt zur Antwort: “Wir sind zufrieden mit Zwietracht, Blut und Unruhe; aber niemals mit einem Oberherren.” So hätten im fränkischen Frankreich des frühen Mittelalters noch die Barone germanischer Herkunft antworten können.

Die Afghanen würden ein Beispiel einer solchen indogermanischen Herrenschicht abgeben, wie man sich zu Jakob Grimms Zeiten und wie einige sich heute wieder die Indogermanen vorstellen möchten: nämlich als Hirtenkrieger, die sich zu Herren von hackbau- oder ackerbautreibenden Bevölkerungen aufwerfen und bei mittelalterlichen Zuständen für das so aus Rassenüberschichtung entstandene Volk einen Schwertadel, ein “Nur-Kriegertum, bilden, jedenfalls aber eine im Boden nicht verwurzelte, freizügige Oberschicht unruhig herrentümlichen Wesens - die Afghanen würden ein solches Beispiel abgeben, wenn ihr Hirten-Kriegertum etwas ursprüngliches wäre. Dieses Hirtenkriegertum - wenn man die Eigenart des afghanischen Herrenstandes überhaupt so richtig bezeichnet - kann aber nicht ursprünglich sein, da gerade auch die iranische Gruppe der Indogermanen in ihren Anfängen die kennzeichnenden Züge indogermanischen Bauernkriegertums zeigt, wie es besonders erhaben sich im persischen Mazdaismus ausgedrückt hat. Die Lockerung des Afghanentums zu einem dem Boden nicht mehr verbundenen Herrenstande muß in besonderen Verhältnissen des afghanischen Wohngebietes und der Geschichte der afghanischen Stämme gesucht werden. Leider hat sich diese Geschichte bisher nicht mehr als nur dürftig erhellen lassen.

Sind die Ursitze der Afghanenstämme wirklich im Suleimangebirge zu suchen, so ließe sich diese Entbäuerlichung der Afghanen wohl erklären: dieses Gebirge besitzt nur in seinen Tälern einige fruchtbare Anbaugebiete.

* * *

[Gereuth, September 1933]


Hans Friedrich Karl Günther

dimanche, 15 février 2009

Réflexions sur l'idéal "perséide", sur les politiques de la dynastie Pahlavi, sur la révolution islamiste et la notion de "djallihiyya"

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Réflexions sur l'idéal "persédie", sur les politiques de la dynastie Pahlavi, sur la révolution islamiste et la notion de "djallihiyya"

Paris, Invalides, "Mémorial des Rois", 7 février 2009

Intervention de Robert Steuckers

 

Mesdames, Mesdemoiselles, Messieurs, Monsieur le Président,

 

Nous ne nous connaissions pas et nous allons faire connaissance aujourd’hui. C’est par l’intermédiaire d’un texte que vous avez appris l’existence de nos travaux d’histoire et de géopolitique. Ce texte sur l’histoire et le destin de l’Iran a toutefois une genèse. Une genèse qu’il me paraît plus impérative de vous expliciter, avant de passer au vif du sujet, plutôt que de vous rappeller les grands moments d’une histoire iranienne que, somme toute, vous connaissez bien mieux  que moi.

 

Ce texte s’inscrit dans un itinéraire personnel et l’élément premier, certes le plus modeste, relève peut-être tout simplement d’une piété filiale, car mon père, homme simple, vouait une admiration à l’endroit de SMIR Mohammed Reza Pahlavi et de son oeuvre sociale, économique et politique.

 

Mais la raison qui poussera le jeune adulte que j’étais à respecter et à explorer le passé iranien me vient du peintre, poète et érudit Marc. Eemans, issu des milieux surréalistes bruxellois des années 20 et 30.

 

A cette époque, la Belgique connaissait un “Renouveau bourguignon”, avec les historiens Paul Colin, Luc Hommel et bien d’autres, qui entendaient renouer avec les “fastes de la Cour de Bourgogne” et avec l’âge d’or artistique, musical et chorégraphique (Elsa Darciel) du XV° siècle des Pays-Bas et du Luxembourg.

 

Cette volonté de retrouver l’âge d’or des Ducs de Bourgogne n’avait pas qu’une vocation artistique: elle posait également des objectifs politiques, dont:

1)       Le rappel, dans l’imaginaire des élites et des étudiants, des étapes de l’unification territoriale du “Cercle de Bourgogne” pour tenter de contrer, de manière anamorphique, toutes les forces centrifuges, qu’elles émanent du calvinisme hollandais, de l’imitation du républicanisme français dans les provinces romanes ou du nationalisme flamand plus récent.

 

2)       Le rappel de la vocation impériale et européenne (Drion du Chapois) des terres du “Cercle de Bourgogne”, à cette époque où les héritages bourguignon-bavarois de Philippe le Bon et Charles le Hardi, habsbourgeois de l’Empereur Maximilien I et aragonais-castillan de Ferdinand et Isabelle fusionneront par la politique dynastique des Ducs, Empereurs et Rois. C’est dans ce cadre grand-européen, sans limites territoriales trop exigües, que devait s’épanouir le génie des comtés et duchés du Cercle de Bourgogne.

 

3)       Cette fidélité au triple héritage bourguignon, habsbourgeois et aragonais-castillan a des implications géopolitiques bien évidentes: il faut ramener le Danube de ses sources à son embouchure dans le giron impérial romain, en dépit des défaites  de Nicopolis (1396; avec Jean sans Peur) et de Varna (1444); la maîtrise du bassin danubien dans sa totalité implique de déboucher dans la Mer Noire, dans cet espace pontique qui avait généré  le mythe des Argonautes et de la Toison d’Or, symbole de la chevalerie fondée par Philippe le Bon, une chevalerie qui doit tant, dans ses principes, aux traditions immémoriales de la Perse et de la religion de Zoroastre, dont on situait l’origine, à l’époque, au-delà de la Terre de Colchide.

Le retour à la Mer Noire, à la Terre de Colchide et à l’Orient sarmate ou perse avait pour corollaire stratégique de contrôler l’ensemble de la Méditerranée et surtout son bassin oriental, ce qui nous mènera, plus tard, à la demi-victoire de Lépante en 1571.

 

Dans le cadre de ce renouveau bourguignon, essentiellement artistique et esthétique pour le grand public, examinons le rôle de Marc. Eemans, né en 1905 à Termonde et féru, dès son adolescence, de toutes les avant-gardes provocatrices des trois premières décennies du XX° siècle. Marc. Eemans a vécu, intensément, comme tous les jeunes audacieux de son temps, les avènements successifs du futurisme, du dadaïsme, du surréalisme, du vorticisme anglo-saxon, avec leur cortège de provocations, pour arriver, jeune adulte, à davantage de discernement: on ne construit rien sur les sables mouvants de la provocation et de la polissonnerie; toute critique de l’établissement culturel dominant de l’Occident rationaliste et positiviste passe par un retour aux mythes et aux traditions. Ce fut l’option de quelques figures importantes du post-surréalisme. Quelques exemples: Henry Corbin, Roger Caillois, Jules Monnerot.

 

Marc. Eemans fonde, dans ce contexte, la revue “Hermès” qui paraîtra de 1933 à 1939, plus exactement jusqu’à la mobilisation générale des armées de septembre 1939, où 620.000 hommes revêteront l’uniforme. A l’époque secrétaire national au tourisme, il s’était penché sur l’étude des dimensions spirituelles se profilant derrière l’art religieux de nos pays; dans le cadre de ces activités, il découvre la tradition mystique médiévale de Flandre, de Brabant et de Rhénanie, dont “Hermès” explorera l’univers.

 

Le parallèle était évident entre ces traditions de l’Extrême Occident européen et l’oeuvre de votre grand mystique Sohrawardi, avec son culte de la Lumière que l’on retrouve tout autant dans l’architecture iranienne que dans l’architecture gothique. L’élan vers le Ciel, vers Ouranos et la Lumière divine, techniquement concrétisé dans les vitraux de nos cathédrales est une dimension commune, à l’Iran et à l’Europe, où jaillit et rejaillit la tradition persane et zoroastrienne.

 

Pendant la seconde guerre mondiale, Marc. Eemans participe, comme Félicien Marceau, à des émissions radiophoniques de nature culturelle, ce qui lui vaut d’être épuré dès 1944, en dépit de sa participation à des cercles ésotériques hostiles à la politique culturelle et artistique du III° Reich, cercles qui s’appelaient les “Perséides”: leur démarche s’inspirait directement de la mystique de Sohrawardi et du culte vieux-persan de la Lumière aurorale, seul capable de rendre à l’Europe une spiritualité originale et fidèle à ses plus lointaines racines indo-européennes.

 

Après la guerre, Marc. Eemans deviendra l’historien encyclopédiste des mouvements artistiques belges. Je ne pouvais omettre de parler devant vous de cette dette à l’endroit du Perséide Marc. Eemans.

 

J’ai connu Marc. Eemans en 1978, à l’époque où l’Iran connaissait les bouleversements qui le conduiront à devenir une “république islamique”. Nous étions dubitatifs devant ces événements que nous ne comprenions guère, n’étant pas du tout au fait des subtilités de la théologie islamique. Seuls les militants un peu hallucinés du “Parti Ouvrier Européen” ou “Europäische ArbeiterPartei”, téléguidé par Lyndon LaRouche depuis les Etats-Unis, dénonçaient les circuits de Khomeiny comme des réseaux au service de l’Intelligence Service et inscrivaient les bouleversements subis par l’Iran dans la stratégie asiatique de Zbignew Brzezinski. Personne ne les prenait au sérieux, et pourtant...

 

Pour nous, plus simplement, quelque chose de beau et de cohérent était en train de s’effriter, d’être brisé, réduit à néant et dispersé sous les vents cruels de l’histoire. Plus prosaïquement, nous lisions, médusés, les slogans idiots bombés par les alliés gauchistes de la révolution islamiste, sur les murailles sinistres de la Gare du Midi et ailleurs dans Bruxelles (“Chat’Iran – Chat-tyran”, etc.). D’autres prévoyaient, furieux, le ressac de l’industrie métallurgique wallonne, privée de ses débouchés iraniens. Ce que le boycot ordonné par Washington allait amplement confirmer.

 

Le Moyen Orient venait donc d’être plongé dans le chaos. Et les cercles politiques, toutes tendances et orientations confondues, s’enlisaient dans deux erreurs d’analyse majeures:

 

1)       Bon nombre d’observateurs, surtout à droite de l’échiquier politique, se mirent à croire, parce que le Toudeh communiste était partie prenante dans la “révolution”, que l’Iran tout entier allait basculer dans l’orbite de l’URSS qui avançait aussi ses pions en Afghanistan. La révolution, en dépit de son discours islamiste, ne camouflait, pensaient-ils, que l’ancienne volonté tsariste et stalinienne d’avoir accès, via l’Iran, aux mers chaudes et à l’Océan Indien.

 

2)       D’autres, viscéralement hostiles à la tutelle qu’exerçaient les Etats-Unis sur l’Europe et sur le reste du monde, se félicitaient que le nouveau pouvoir en place à Téhéran, était anti-américain, du moins en apparence. Leur raisonnement s’articulait comme suit: “Si les Etats-Unis occupent l’Europe et si nous manifestons contre le déploiement de missiles américains de type Pershing en Europe et, enfin, si nous applaudissons au renouveau du neutralisme en Allemagne Fédérale, alors nous devons nous réjouir de voir Washington confronté à un nouvel ennemi en Iran”. Le nouveau pouvoir à Téhéran est devenu ainsi le nouveau joujou idéologique  —pour paraphraser Rémy de Gourmont—  de toute une fraction intellectualiste intransigeante et aussi d’une bruyante “lunatic fringe” qui va des gauchismes de tous poils aux petits cénacles nationaux-révolutionnaires et à la “nouvelle droite” parisienne. Le “chiisme” dans ses variantes extrémistes et militantes, déduites de la révolution khomeyniste, fut ainsi perçu comme un levier capable de soulever l’ensemble du Moyen et du Proche Orient pour le libérer de la tutelle américaine. Résultat de cette hyper-simplification: un dualisme caricatural qui ne peut en aucun cas servir de mesure pour jauger correctement les relations internationales et les conflictualités locales ni même pour rendre compte d’un phénomène dans toutes ses complexités et nuances.

 

Ces deux modes de penser de travers, ces deux batteries de prises de position ont appelé de notre part des correctifs, au fil de nos interrogations et de nos lectures.

 

L’erreur qui consistait à percevoir la “révolution khomeyniste” comme une entreprise machiavélique et camouflée des Soviétiques, désireux de se tailler une fenêtre sur l’Océan Indien, était infirmée par les bons rapports que la diplomatie impériale iranienne entretenait avec l’URSS, sans aucun lien de vassalité et sans aucune concession à l’idéologie communiste. Par ailleurs, cette diplomatie impériale était inspirée par l’excellente notion stratégique de diversification, ce qui impliquait, concrètement, une diversification des rapports de dépendance et d’interdépendance, à l’instar de la politique gaullienne de Maurice Couve de Murville.

 

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S.M. le Shah avait développé une vision cohérente, harmonieuse et pacifique de la géopolitique de l’Océan Indien (cf. les travaux du géopolitologue Mohammed Reza Djalili), si bien qu’une diagonale eurasienne de paix aurait été possible, à terme, de l’Europe à l’Australie, avec le territoire iranien pour segment central, avec deux verrous seulement, que l’on pouvait aisément neutraliser par une diplomatie habile: la Turquie, pro-américaine, et l’Indonésie. Dans cet immense espace pacifié,centré autour du bloc avestique-védique, de l’Iran à l’Inde, la “Grande Civilisation”, rêvée par S.M. le Shah, aurait pu rayonner de ses mille feux.

 

Au regard de cette vision impériale, la géopolitique du chiisme (selon l’expression de François Thual) ne peut jouer le même rôle dans tout l’environnement géographique de l’Iran en tant que territoire, c’est-à-dire tout l’environnement centre-asiatique, indien, sunnite, arabe et turcophone du pays. Toutes les composantes de cet environnement peuvent admettre un apport authentiquement iranien dans leur héritage, mais pas nécessairement un apport chiite, comme le prouvent les inimitiés solides à l’endroit du chiisme qui subsistent au sein de l’univers religieux et politique sunnite et surtout wahhabitique.

 

La notion de “civilisation iranienne”, si clairement explicitée dans la “Réponse à l’histoire” de S.M. le Shah, s’avère finalement plus écouménique et fructueuse sur le long terme que le khomeynisme à coloration chiite. Plus récemment, la politologue française Laurence Louër a démontré, dans ses quelques ouvrages sur les réseaux chiites transnationaux, que ceux-ci, hors de l’Iran, obéissaient à des logiques fortes, le plus souvent locales, et, de ce fait, difficilement instrumentalisables dans une perspective impériale ou post-impériale irano-centrée. C’est partiellement le cas du Hezbollah et surtout du chiisme irakien, où la fraction Al-Dawa et les sadristes demeurent, ou du moins demeuraient jusqu’il y a peu, indépendants de toute influence iranienne déterminante.

 

En Irak, l’ASRII est demeurée pro-iranienne jusqu’en 2007, année où elle a opéré un virage vers des options plus nationales et plus autonomes par rapport à l’autorité religieuse d’Ali Khamenei.

 

L’élimination du pouvoir baathiste de Saddam Hussein, explique Laurence Louër, a certes été une aubaine pour l’Iran post-khomeyniste, qui voyait disparaître son ennemi mésopotamien: sans Saddam Hussein, le  pouvoir post-khomeyniste, que ce soit celui de Khatami, dit “modéré”, ou celui d’Ahmadinedjad, pouvait, en théorie, exercer une influence plus directe sur les communautés chiites extra-iraniennes mais, en dépit de quelques succès francs et évidents, cette influence demeure finalement plus fluctuante, moins assurée, qu’on aurait pu se l’imaginer.

 

Les inimitiés au sein du monde musulman lui-même pèsent très souvent plus lourd que les solidarités potentielles dont rêvaient les pan-islamistes anti-américains qui, en Occident, par tradition contestatrice, énonçaient leurs prophéties apocalyptiques en chambre ou en salon, à défaut d’avoir un impact sur le terrain.

 

La notion de “civilisation iranienne” et le grand dessein de S.M. le Shah pour tout l’espace riverain de l’Océan Indien, appuyé par une diplomatie classique, avait plus de chance de réussir à terme. Et d’ouvrir une ère de paix en Afghanistan, où l’Iran impérial s’apprêtait à offrir une aide au développement;

sur la frontière irako-iranienne où les accords d’Alger de 1975, portant sur le Chatt’El-Arab, avaient aplani bien des différends;

sur la frontière nord avec l’URSS grâce à des accords diplomatiques et économiques bilatéraux bien étayés;

avec la Turquie dans le cadre du CENTO et en souvenir de l’amitié entre S.M. impériale Reza Pahlavi et Mustafa Kemal Atatürk;

avec l’Egypte sunnite, liée à l’Iran par une amitié solide;

avec l’Arabie Saoudite du Roi Fayçal dans le cadre de l’OPEP.

 

La notion de “civilisation iranienne”, et celle de “Grande Civilisation”, induisaient une meilleure stratégie sur l’échiquier international, plus réaliste au sens de la Realpolitik traditionnelle, sans aucun ballast idéologique particulier, plutôt particulariste et donc inexportable. Les services américains et britanniques, qui se profilaient derrière la “révolution khomeyniste”, ont justement voulu éliminer ce facteur de paix et décapiter une armée et une marine qui auraient garanti un ordre régional et plus tard supra-régional dans le Golfe et au moins dans la partie occidentale de l’Océan Indien.

 

L’éradication de l’armée, et plus particulièrement de l’armée de l’air impériale iranienne, avait connu un précédent, en 1941, quand l’aviation britannique avait détruit la marine de S.M. Reza Pahlavi.

 

Washington a donc cherché à établir, entre la Méditerranée orientale et son allié pakistanais, un ordre géopolitique sans assises territoriales réelles, en tablant sur des affinités idéologiques entre le sionisme israélien et le biblisme protestant et puritain qui sous-tend la théologie politique américaine. Washington a donc privilégié une alliance idéologique plutôt que géopolitique, explique le politologue irano-américain Trita Parsi.

 

Israël constituait, pour les Etats-Unis, après 1956, un atout stratégique majeur: celui de disposer d’une armée efficace, structurée sur le binôme char d’assaut/chasseur bombardier (Centurion/MirageIII), à proximité du Canal de Suez pour dégager celui-ci au cas où Nasser, ou tout nouveau Nasser, le fermerait à la circulation maritime. L’Egypte est devenue, avec Sadate et Moubarak, une alliée des Etats-Unis mais le lien de Washington avec Israël est resté puissant, inébranlable. La concurrence majeure au Proche et au Moyen Orient est celle qui sévit entre Téhéran et Tel Aviv, selon Trita Parsi.

 

Dès le développement de la marine impériale iranienne et des capacités spécifiques de ses aéroglisseurs d’assaut, deux pôles de puissance se juxtaposaient dans l’espace du Proche et du Moyen Orient, et se concurrençaient pour obtenir le titre d’allié privilégié des Etats-Unis. Ce sont ces considérations-là qui prévalent aujourd’hui, en dépit des vicissitudes politiques et indépendamment des discours idéologiques ou religieux, des propagandes médiatiques. Il faut tout de même noter une différence de taille: au temps de la Guerre Froide et de l’existence de l’URSS et du Pacte de Varsovie, la concurrence entre Téhéran et Tel Aviv était moins virulente. Une fois que le grand croquemitaine soviétique s’est retrouvé, dès la fin des années 70, sur la pente du déclin économique et technologique, la concurrence est devenue plus vive, plus âpre. Avec, en filigrane, cette question lancinante: “Laquelle des deux  puissances aura la faveur des Etats-Unis dans un avenir plus ou moins proche?”.

 

Israël est demeuré le favori, vu les affinités idéologiques entre le puritanisme bibliste et un certain sionisme. Mais l’insignifiance, l’exigüité et la fragilité territoriales d’Israël permettent aisément de dire qu’un ordre régional reposant sur une base territoriale et démographique aussi ténue n’est guère tenable à long terme, surtout s’il n’y a plus d’ennemi égyptien ou irakien et si l’ennemi syrien peut être considéré comme quantité négligeable.

 

Pour consolider le projet américain de “Greater Middle East”, il faut un noyau territorial plus vaste et une masse démographique suffisante. Qui plus est, ce territoire et cette population doivent occuper une position centrale, au beau milieu de l’espace que l’on entend organiser et pacifier. Au beau milieu de ce “Greater Middle East”, il n’y a que l’Iran qui puisse tenir ce rôle. C’est exactement ce que disait S.M. le Shah quand elle parlait de l’espace de la “civilisation iranienne”. Le “Greater Middle East” dont rêvent les Américains, afin qu’il leur serve de débouché pour relancer leur économie, n’est rien d’autre qu’un espace qui, en toutes ses parties, à un moment ou à un autre de l’histoire de ces cinq ou six derniers millénaires, a reçu une empreinte, une détermination ou une influence iranienne.

 

Cependant, créer un “Greater Middle East” reviendrait à redonner à l’espace territorial iranien sa centralité impériale pluriséculaire, même après avoir écrasé un Iran islamiste comme le voudraient les faucons du Pentagone. Ensuite à restaurer l’aire de la “civilisation iranienne” qui ne peut accepter que des déterminations issues de sa propre matrice spirituelle, historique, linguistique et géographique.

 

La gestion d’une telle aire civilisationnelle implique justement une diplomatie différenciée, non idéologisée, axée sur le divers du réel proche et moyen-oriental, sur la diversification nécessaire, comme l’avaient préconisé les deux Shahs de la dynastie Pahlavi.

 

Richard Nixon était prêt à laisser l’Iran impérial jouer ce rôle de puissance régionale. Les démocrates qui lui ont succédé, après le Watergate, n’ont pas voulu cette solution et ont soutenu directement tous les adversaires idéologiques ou religieux du régime impérial, y compris les plus farfelus. Washington ne veut pas d’adjudant efficace: ni en Europe ni au Moyen Orient ni en Asie orientale. En dépit des propositions d’alliance irano-américaine, que formule aujourd’hui Robert Baer, dans l’espoir de dégager le contribuable américain de la charge très lourde que constitue le double budget de guerre pour l’Irak et pour l’Afghanistan. D’autant plus que le chaos persiste et s’amplifie dans les deux pays voisins de l’Iran, occupés par les Etats-Unis, l’OTAN et leurs alliés et supplétifs. Robert Baer rêve de voir une armée iranienne prendre le relais des Américains et de l’OTAN en Afghanistan et en Irak. Pour étoffer son plaidoyer, il n’évoque ni un impérialisme iranien dangereux à terme pour l’ensemble de la planète, comme l’ont décrit dans les médias et les faucons israéliens et les porte-paroles des cénacles néo-conservateurs. Ni un Iran devenu puissance nucléaire. Le ton est doux, suave et rationnel. Diamétralement différent du discours néo-conservateur d’Outre-Atlantique ou du discours des anciens mousquetaires de la “nouvelle philosophie”, ici, sur la place de Paris.

 

Mais n’est-ce pas pour enliser l’Iran dans une guerre qu’il n’a pas voulu? Une guerre que son dernier Empereur avait justement voulu éviter en signant les accords d’Alger avec l’Irak et en offrant au Roi Zaher Shah d’Afghanistan une aide fraternelle, ce qui a fait hurler les tenants sourcilleux de la vieille géopolitique anglo-saxonne d’Homer Lea qui ne veulent pas, n’ont jamais voulu, d’une présence iranienne en Afghanistan, ni en 1837 ni en 1857 ni dans les années 70 du XX°siècle. Le malheureux pays des Hazaras et des Pachtounes n’aurait alors connu ni la révolution communiste ni l’occupation soviétique ni le “low intensity warfare” des talibans ni l’invasion occidentale.

 

Les Etats-Unis ont voulu éliminer la politique régionale et la stratégie de diversification de S.M. le Shah. Dans la foulée, ils ont voulu bloquer sa politique d’indépendance énergétique par le développement du nucléaire et par sa participation à EURODIF, qui impliquait un tandem euro-iranien; de même, ils ont voulu briser la coopération entre l’Allemagne, la France, d’autres puissances européennes et l’Iran en tous domaines. Pour cela, ils ont créé les conditions qui ont mené à trente ans de gâchis, d’isolement, de boycot, de guerre, de ruine et de désolation.

 

Pour voir in fine ressurgir un Iran, certes affaibli, en deçà des potentialités que lui réservait la politique impériale, mais un Iran, qui, par le poids de l’histoire et de la géographie, reste, en dépit de toutes les avanies qu’il a subies, la puissance principale de la région; que l’on a le culot, aujourd’hui à Washington, de solliciter à nouveau comme allié, alors que l’on avait repoussé les timides ouvertures de Khatami et de son “dialogue des civilisations”, afin de couler sa politique et de faire accéder au pouvoir Ahmadinedjad, que l’on pouvait facilement diaboliser dans les médias afin de poursuivre la politique d’ostracisme à l’endroit de l’Iran, désormais encerclé par les armées américaines campées en Irak et en Afghanistan, sans compter les bases de l’Ouzbékistan et du Kirghizistan, à l’avenir mal assuré, il est vrai.

 

Une partie de l’établissement américain cherche désormais à renouer avec l’Iran pour éviter que son potentiel ne favorise les stratégies russes, tandis que l’Europe ne joue plus aucune politique “pro-active” dans la région la plus hautement stratégique de la planète.

 

La politique impériale de l’Iran avait le mérite, l’immense mérite, de la profondeur temporelle. Le recours à l’histoire pluri-millénaire de la région, depuis l’arrivée des Proto-Iraniens en Asie centrale puis sur les hauts plateaux de l’Iran actuel, était un atout politique extraordinaire, celui que procure en toutes choses la longue mémoire. Elle confère à l’intelligence politique les vertus de la stabilité, de la tempérance, selon le principe zoroastrien qu’il faut avoir de bonnes pensées, dire de bonnes paroles et mener de bonnes actions, exactement comme tout catholique se marque le front, les lèvres et la poitrine d’une croix avant d’écouter l’Evangile dominical. Un rite hérité de la tradition perse!

 

Délibérément, ce pari pour la plus longue mémoire se heurtait à la notion de “jahilliya” chez les islamistes et les wahhabites, pour laquelle toute l’histoire pré-islamique relève d’un “âge d’ignorance”, indigne de l’attention du croyant. L’islamisme n’est certes pas la seule force politique en ce monde à considérer le passé comme obscur et dépourvu de valeur ou d’intérêt. Le républicanisme français ou l’idéologie américaine ont la nette tendance à juger inférieur tout ce qui a précédé 1789 ou 1776. Et à agir en zélote contre tous les vestiges politiques, juridiques ou institutionnels hérités des Anciens, avec cette acribie du converti qu’observe Naipaul, Prix Nobel de littérature, dans tous ses ouvrages sur la civilisation indienne et sa périphérie, notamment indonésienne, contrecarrée dans son élan par l’islamisation qui provoque une cassure et un malaise, qui ne guérit jamais.

 

L’histoire iranienne et l’oeuvre de la dynastie Pahlavi nous rappellent que tout passé, de gloire ou de misère, de splendeur ou de désespoir, que tout passé aussi éloigné fût-il, oblige le souverain comme le soldat, le clerc comme le plus humble des sujets. Que cette notion d’obligation politique et historique descende sur nos têtes et en nos têtes, comme une Pentecôte qui nous donnerait la Kwarnah, le feu de gloire et de victoire.

 

Et c’est là la grande leçon à méditer, si nous voulons être et demeurer des Perséides.

 

Je vous remercie.

 

(écrit à Forest-Flotzenberg, 4 & 5 février 2009).

 

Ont participé à ce Colloque sur l’Iran du “Mémorial des Rois” à Paris, le 7 février 2009, aux Invalides à Paris, sous la présidence de Monsoieur Chahpour Sadler: 

-          Prof. Jean Haudry, sur “la royauté indo-européenne dans la tradition avestique”;

-          Prof. Charles-Henry de Fouchecour, sur “Ferdoussi et le Chahanmeh, le “Livre des Rois””;

-          André Pertuzio, sur “l’Iran et le problème pétrolier”;

-          Joseph-Antoine Santa-Croce, sur “les splendeurs de Persépolis”;

-          Laurent-Arthur du Pléssis, sur “l’Iran et la prochaine guerre mondiale”;

-          Robert Steuckers (intervention in extenso ci-dessus).

-          Le général Pierre-Marie Gallois est intervenu par le truchement d’un entretien filmé, sur “Carter, Giscard d’Estaing et la révolution islamiste”.

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mardi, 10 février 2009

Colloque sur la géopolitique du Moyen Orient à Paris

Samedi dernier : un intéressant colloque sur la géopolitique au Moyen Orient à Paris...

persis1.jpgSamedi dernier, se déroulait à Paris un colloque fort intéressant consacré à la géopolitique au Moyen Orient et au rôle de l’Iran dans celle-ci. Le thème exact était : « De la Perse royale à l’Iran révolutionnaire : le jeu d’échecs planétaire ».

 

Organisé par le Mémorial des Rois, fondation présidée par notre ami Chahpour Sadler qui regroupe de nombreux partisans de la dynastie impériale iranienne, ce colloque reçut les contributions de véritables spécialistes tels que les professeurs Jean Haudry et Charles-Henry de Fouchecour, de fins connaisseurs de l’Iran comme André Pertuzzio et Joseph-Antoine Santa Croce, et de géopoliticiens comme Robert Steuckers et Laurent Artur du Plessis.

 

Le Général Gallois fit une remarquable intervention, retransmise sur écran géant, rappelant le rôle néfaste, pour ne pas dire criminel, de Valéry Giscard d’Estaing dans la promotion de l’Ayatollah Khomeiny (exilé en France) et la chute du Shah d’Iran. Chute qui a engendré l’instauration du régime islamiste et la déstabilisation de l’ensemble du Proche et du Moyen Orient. Le monde paye encore, trente ans plus tard, l’inconséquence politique de ce valet de l’Amérique qu’était Giscard.

 

Il y a des vérités qui sont bonnes à rappeler. Ce colloque fut l’occasion d’en rappeler une, une vérité qui, à elle seule, résume la politique à courte vue des libéraux…

 

Nous reviendrons sur ce colloque dans le prochain numéro de la revue Synthèse nationale.

Trouve sur: http://synthesenationale.hautetfort.com/

 

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mardi, 03 février 2009

Iran: irrésistible ascension

« Iran. L'irrésistible ascension »

Par Robert Baer,

 

L’Iran, une superpuissance émergente

Paru au beau milieu de la campagne présidentielle aux Etats-Unis, le nouveau livre de Robert Baer invite les futurs dirigeants de Washington à opérer une profonde révision, pour ne pas dire une révolution de la stratégie américaine au Moyen-Orient. Cet ancien officier de renseignement de la CIA, spécialiste du Moyen-Orient et familier de ce terrain d’opérations depuis le début des années 1980, s’est illustré en publiant plusieurs ouvrages, devenus célèbres. Dans « Or noir et Maison blanche », il donne un éclairage inédit sur les réseaux de connivence entre Washington et Riyad. Dans « La chute de la CIA », il prononce un vibrant plaidoyer pour un retour aux fondamentaux du métier d’agent de renseignement, qui, selon lui, ne peut être qu’un guerrier armé d’une excellente connaissance de l’ennemi et non un post-adolescent jouant à la guerre par écran interposé… Le scénario du film « Syriana » (2006),de Stephen Gaghan, a été très largement tiré de ces deux ouvrages. D’ailleurs, le héros, joué par George Clooney, n’est autre que Robert Baer lui-même, affublé d’un pseudonyme… Sous le titre « The Devil We Know : Dealing with the New Iranian Superpower », Baer achève donc une sorte de trilogie. Il donne une analyse documentée du nouveau rapport de force régional, instauré par la présence militaire américaine en Irak depuis 2003. En conclusion, il propose d’ouvrir une nouvelle voie, pour le moins radicale si l’on s’en tient à la doctrine de l’ « Axe du Mal » jusqu’ici prévalente : l’Iran doit devenir l’autre partenaire de Washington au Moyen-Orient, l’autre pilier de la stratégie des Etats-Unis dans la région, en d’autres termes l’alter egogéostratégique de l’allié Israël… 

A l’aune des doctrines géopolitiques américaines (Nicholas Spykman, puis Zbigniew Brzezinski), l’Iran, verrou stratégique du continent eurasiatique, constitue depuis la fin de la seconde guerre mondiale une pièce maîtresse sur le grand échiquier des jeux d’influence entre les grandes puissances. La révolution islamique de 1979 avait profondément ébranlé les cadres d’analyse et de prévision du Pentagone et de Langley, conduisant Washington à un rapprochement plus étroit que ce qui n’était vraiment souhaité avec l’Arabie Saoudite. Cette alliance américano-saoudienne a produit de coûteux dégâts collatéraux, en favorisant par exemple la constitution de puissants (et incontrôlables) réseaux de l’islam sunnite radical, armés par Washington et financés par Riyad, réseaux néanmoins indispensables - faute de pouvoir intervenir à partir du territoire iranien - pour faire la guerre contre l’URSS en Afghanistan. Pour Baer, ces expériences devraient logiquement conduire les Américains à renoncer à prendre appui dans le monde sunnite, qui ne compte aucun Etat qui soit à la fois viable et fiable, et se tourner vers le chef de file du monde chiite, l’Iran, seul Etat du Moyen-Orient (avec Israël) qui soit doté d’une véritable stratégie et qui ait remporté des victoires significatives au cours de ces trente dernières années. L’Iran « a déjà battu l’Amérique » en Irak - voisin arabe de l’Iran, dont la population est à 60% chiite - et tire le meilleur profit d’une situation de chaos qui lui permet « d’annexer une large portion de l’Irak sans tirer un seul coup de feu ». En occupant militairement l’Irak, « les Etats-Unis auront livré un autre pays arabe à l’Iran sur un plateau - un nouveau joyau pour sa couronne impériale ». L’observation de ce qui se passe à Bassorah (Basra), grande ville du sud de l’Irak, située à 550 km de Bagdad sur le Chatt-al-Arab - la voie d’eau qui relie le Tigre et l’Euphrate au Golfe persique - seul accès maritime du pays et principale voie d’exportation de son pétrole, permet à elle seule de saisir le « paradigme iranien de l’expansion ». Cette ville, qui constitue donc le « cœur de l’économie irakienne », « ne fait plus réellement partie de l’Irak », ne serait-ce que parce qu’aujourd’hui, à Bassorah, « la monnaie de référence est le toman iranien » et que dans toutes les provinces méridionales de l’Irak, dont Bassorah est la métropole, « la police, les services secrets, les hôpitaux, les universités et les organisations sociales (…) ne répondent pas aux autorités de Bagdad, mais aux partis politiques et autres groupes chiites soutenus par l’Iran ». Dès lors, il est envisageable que demain, « l’Iran détiendra de facto le pouvoir sur le pétrole irakien », ce qui lui conférera un poids accru au sein de l’OPEP et lui permettra de rivaliser encore davantage avec l’Arabie Saoudite, à laquelle l’Iran chiite dispute aussi la primauté au sein de l’islam et le contrôle des lieux saints de La Mecque…

C’est dans le très chaotique Liban du début des années 1980, où l’agent Baer a d’ailleurs connu sa première expérience du terrain moyen-oriental, que la jeune république islamique d’Iran a fourbi ses premières armes impériales. Soutenant et armant les milices chiites du Hezbollah, l’Iran a expérimenté et développé tout à la fois l’art de la guerre asymétrique et la stratégie d’instrumentalisation politique des minorités chiites. En 2000, l’ayatollah Khamenei, successeur de Khomeini en tant que Chef suprême - le véritable pouvoir exécutif de l’Iran - déclarait publiquement : « le Liban est la plus grande réussite de l’Iran en termes de politique étrangère ». En 2006, l’Iran remportait, par Hezbollah interposé, une victoire militaire aussi stupéfiante que décisive contre Israël, attestée en ces termes par le rapport de la commission Winograd, la commission d’enquête mandatée par le gouvernement israélien pour analyser la guerre de trente-quatre jours de 2006 : « une organisation semi-militaire de quelques milliers d’hommes a résisté, pendant plusieurs semaines, à l’armée la plus puissante du Moyen-Orient, qui jouissait d’une supériorité aérienne totale, d’une taille et d’avantages technologiques considérables ». Pour Baer, sa grande maîtrise de la guerre asymétrique, qui combine terrorisme et méthodes conventionnelles, met l’Iran à l’abri du besoin de l’arme atomique. Entretenu à dessein par le lobby pro-israélien, le spectre de la bombe iranienne devrait être rangé au rayon des fantasmes et autres accessoires idéologiques obsolètes qui, regrette vivement l’auteur, sont toujours de mise dans la réflexion géopolitique américaine, brouillant les pistes et désinformant les élites occidentales sur les réalités du Moyen-Orient. « Non seulement l’Amérique se bat encore comme en 1939-1945, mais elle considère le monde en termes d’idéologies du XIXe siècle - fascisme, communisme, libéralisme et démocratie (…) En rangeant l’Iran dans la catégorie des “islamofascistes“, nous commettons une erreur majeure ». Il convient de contrer l’opinion dominante en vertu de laquelle l’Iran, au demeurant « société fermée, profondément xénophobe et paranoïque », est en proie à un régime totalitaire. Baer explique que le président Ahmadinejad - dont les vaticinations négationnistes et la rhétorique anti-occidentale abreuvent le moulin de la diabolisation de l’Iran, thème fort prisé par les médias occidentaux - dispose d’un pouvoir très restreint. Le véritable pouvoir est placé entre les mains de l’ayatollah Khamenei, à la fois « ecclésiastique, médiateur, dictateur, commandant militaire et chef de la police », dont la « façon de gouverner tient plus du pape du XIIe siècle que du président américain ou d’un fasciste totalitaire à la Adolf Hitler ». En Iran, tout ce qui relève du pouvoir politique est secret, et l’a toujours été. Aucun des circuits de la prise de décision n’est véritablement connu, l’art consommé de la manipulation du secret étant considéré comme un attribut essentiel du politique. Le Prince, s’il n’est pas identifié clairement, existe bel et bien à Téhéran, mais il faudra, prévient Baer, se contenter de traiter avec ses émissaires, sans que cela ne mette en cause la confiance au cours des négociations et tractations. La maîtrise du secret s’accompagne de celle du double langage, qu’il faut apprendre à décrypter, dans la mesure où la scansion de slogans anti-occidentaux lors des fréquentes manifestations de rue se conjugue parfaitement avec une très grande connaissance, par les Iraniens, de la société occidentale par le biais d’internet et des séries télévisées, d’autant qu’il existe en Iran « ce qui n’existe dans aucun pays arabe : une véritable classe moyenne » … Baer cite fort opportunément les propos d’Amin, un ami iranien : « l’Iran est un pays sous le voile des apparences. Et ce voile, ce n’est pas les Iraniens qu’il aveugle (…) Les Américains voient le turban, pas le cerveau »...

L’administration Obama saura-t-elle, mieux que la précédente, considérer l’Iran dans son « irrésistible ascension » et en tenir compte? Tout semble indiquer que le nouveau locataire de la Maison blanche, loin d’écouter les conseils de Robert Baer, poursuivra la politique d’alliance inconditionnelle à Israël, dont l’offensive menée ces dernières semaines dans la bande de Gaza visait non seulement à frapper le Hamas, mais aussi à tester la capacité de Téhéran à « tenir ses troupes », c’est-à-dire à contrôler le Hezbollah libanais pour l’empêcher de voler au secours de son allié, le Hamas… Toutefois, le redéploiement annoncé de l’effort stratégique vers l’Afghanistan pourrait conduire les Etats-Unis à tenir compte de l’Empire iranien émergent. En effet, sur quel voisin de l’Afghanistan s’appuyer pour mener à bien une telle entreprise ? Sur le Pakistan, en voie d’effondrement ? Sur les anciennes républiques soviétiques d’Asie centrale, sans l’accord de la Russie, plus que jamais irritée par le déploiement du bouclier anti-missiles en Europe de l’Est ?... Robert Baer dégage quelques lignes de force utiles qui permettent d’envisager l’avenir à moyen terme et montrent toutes que la politique américaine actuelle aboutit à coup sûr à une impasse. Animé d’une irrépressible ambition impériale, l’Iran va s’imposer comme une incontournable puissance régionale. Au-delà de son implantation au Liban et en Irak, Téhéran va poursuivre sa stratégie d’instrumentalisation de l’islam chiite au Bahreïn. Ce petit archipel, seule monarchie du Golfe à majorité chiite, pourrait devenir la tête de pont d’une stratégie iranienne de contrôle du détroit d’Ormuz et, par ce biais, de l’ensemble du Golfe persique, une zone par laquelle transite plus de la moitié du pétrole importé par les pays de l’OCDE… L’Iran détient également certains atouts maîtres sur le terrain afghan et même au Pakistan, un pays où vit une forte minorité chiite (20% de la population). Il faut également rappeler que l’Azerbaïdjan, le voisin post-soviétique du nord, est lui aussi à majorité chiite. Mais toute stratégie d’influence iranienne dans ce pays pourrait mettre en péril l’équilibre interne de l’Iran lui-même, un « Empire multiethnique » où les Persans ne représentent que 51% de la population et les Turcs azéris 24%… Baer rappelle à ce sujet un fait majeur, souvent ignoré : les Turcs azéris constituent la grande majorité de la population de la capitale, Téhéran. S’il est une minorité transfrontalière qui fait l’objet de toutes les attentions de l’Iran, c’est bien la minorité kurde, à cheval sur les territoires de l’Irak, de l’Iran, de la Syrie et de la Turquie. Selon Baer, Téhéran mène une politique active d’instrumentalisation de la minorité kurde de Turquie en soutenant discrètement les bases arrière du PKK. La Turquie, ce « pilier oriental de l’OTAN » (George Bush) est d’ailleurs, selon l’auteur, la prochaine cible de l’Iran… Ce livre passionnant et stimulant recèle bien d’autres informations (notamment un utile glossaire) et réflexions intéressantes encore, notamment un chapitre tout à fait instructif sur la distinction entre les notions de martyr (chiite) et la pratique (sunnite) des kamikazes… Cet ouvrage est à lire et à méditer. Seule ombre au tableau, et elle est de taille : l’éditeur français n’a pas songé à faire figurer une carte ! Vaillants lecteurs, à vos atlas !

Antoine de Fixey
Polémia
27/01/09

Robert Baer, « Iran. L’irrésistible ascension », éd. Jean-Claude Lattès, (trad. Marie de Prémonville) 2008, 382 p.

 

Antoine de Fixey